Molestie sessuali

  • L’equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni di genere, sancita in via generale dall’art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 198/2006, deve estendersi anche al regime probatorio previsto dall’art. 40 dello stesso decreto, secondo cui qualora il ricorrente fornisca elementi di fatto (desunti anche da dati di carattere statistico) idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, l’onere della prova spetta al convenuto che deve dimostrarne l’insussistenza. Tale estensione si giustifica sia per l’assenza di deroghe al principio generale e sia per la configurabilità in caso di molestie del tertium comparationis nel trattamento differenziale negativo rispetto ai lavoratori del diverso genere che non patiscono le medesime condotte. (Cass. 15/11/2016 n. 23286, Pres. Venuti Est. Manna, in Lav. nella giur. 2017, con commento di F. Di Noia, 133)
    Sussiste una discriminazione per ragioni di sesso con violazione dell’art. 2087 c.c. in caso di ripetute molestie sessuali, verbali e fisiche, accertate anche in sede penale, da parte del padre della legale rappresentante della società datrice di lavoro, che di fatto operava come titolare dell’azienda, con conseguente giusta causa di dimissioni e condanna al risarcimento del danno biologico e non patrimoniale da discriminazione ex art. 38 d.lgs. n. 198/2006. (Trib. Firenze 20/4/2016, Giud. Papait, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di R. Diamanti, “Le molestie sessuali, la discriminazione, l’abuso”, 63)
  • In un caso di specie nel quale due lavoratrici, con separati ma coordinati ricorsi, abbiano accusato l’ex datore di lavoro, in proprio e quale rappresentante di una s.r.l. unipersonale, di aver posto in essere nei loro confronti ripetute avances verbali e anche fisiche, e sia risultato, da testimonianze e registrazioni di altre lavoratrici, che queste erano state vittima di comportamenti analoghi, debbono ritenersi acquisiti elementi gravi, precisi e concordanti di carattere statistico, idonei a far ritenere provate, in mancanza di attendibili contestazioni e prove di segno opposto da parte dei convenuti, le dedotte molestie sessuali. (Trib. Pistoia 8/9/2012, Giud. Tarquini, in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Riccardo Del Punta, “Un caso esemplare di molestie sessuali sul lavoro”, 25)
  • Sulla premessa della natura simulata del rapporto di apprendistato corrente con la società, deve ritenersi nullo, perché discriminatorio e riferibile a un motivo illecito determinante, il licenziamento intimato a una delle due lavoratrici per asserita giusta causa, ma senza previa contestazione di addebuto, alcuni mesi dopo l’inizio del rapporto, con le conseguenze di cui all’art. 18 St. lav. Non possono invece reputarsi nulle né annullabili per violenza morale le dimissioni rassegnate dall’altra lavoratrice successivamente alle condotte illecite. (Trib. Pistoia 8/9/2012, Giud. Tarquini, in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Riccardo Del Punta, “Un caso esemplare di molestie sessuali sul lavoro”, 25)
  • Deve essere risarcito alla Consigliera regionale di parità, promotrice di un autonomo ricorso contro i contraenti, il danno non patrimoniale riconducibile alla lesione dell’interesse pubblico realizzata dalle accertate condotte antidiscriminatorie. Inoltre, essendo stata accertata la commissione di condotte discriminatorie in danno di due altre lavoratrici, i convenuti debbono essere condannati a notificare alle predette la decisione con contestuale avviso della loro facoltà di agire per ottenere il risarcimento delle lesioni patite. (Trib. Pistoia 8/9/2012, Giud. Tarquini, in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Riccardo Del Punta, “Un caso esemplare di molestie sessuali sul lavoro”, 25)
  • Le dichiarazioni rese dalla lavoratrice molestata in sede di risposta all’interrogatorio libero sono da ritenersi attendibili anche alla stregua dei riscontri probatori costituiti da testimonianza che riferiscono ripetuti comportamenti di molestie sessuali posti in essere dal datore di lavoro nei confronti di altre lavoratrici. (Cass. 19/5/2010 n. 12318, Pres. Vidiri Est. Ianniello, in D&L 2010, con nota di Ilaria Mazzurana, “La prova delle molestie sessuali sul luogo di lavoro e i danni risarcibili”, 800) 
  • In fattispecie di molestie sessuali, la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale può essere effettuata sulla base di criteri che alludono esplicitamente, in particolare, per ciò che riguarda il c.d. danno morale da reato, alla odiosità della condotta lesiva, connessa allo stato di soggezione economica della vittima e, per quanto concerne il c.d. danno esistenziale, al clima di intimidazione creato all’interno dell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice in conseguenza di esso. (Cass. 19/5/2010 n. 12318, Pres. Vidiri Est. Ianniello, in D&L 2010, con nota di Ilaria Mazzurana, “La prova delle molestie sessuali sul luogo di lavoro e i danni risarcibili”, 800)
  • Commette il delitto di violenza sessuale con abuso di autorità di cui all'art. 609 bis, comma 1. C.p. il datore di lavoro che abbia intrattenuto rapporti intimi con una lavoratrice dipendente, non per il mero rapporto di subordinazione aziendale, ma a condizione che -pur senza usare coazione fisica o morale- abbia utilizzato la sua autorità in maniera deviata, distorta, oltre il limite lecito e consentito, sì da porre la lavoratrice nella condizione di non poter rifiutare le sue richieste. (Cass. Sez. III penale 14/5/2004 n. 22786, Pres. Savignano Est. Squassoni, in Dir. e prat. lav. 2004, 1933)
  • Affinché il delitto di violenza sessuale di cui all'art. 609 bis c.p. possa considerarsi aggravato dalla circostanza dell'abuso delle relazioni d'ufficio prevista dall'art. 61 n. 11 c.p., non è richiesto che l'agente e la persona offesa appartengano allo stesso ufficio (pubblico o privato), essendo invece sufficiente che entrambi, per esigenze del proprio lavoro, ancorché autonomamente esercitato, frequentino abitualmente lo stesso ambiente lavorativo tanto da instaurare un rapporto fiduciario. (Cass. 9/6/2003, n. 24848, Pres. Toriello, Est. Grillo, in Dir. e prat. lav. 2003, 1982)
  • Ai sensi dell'art. 2087 c.c. l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure necessarie a tutelare non solo l'integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti; tale obbligo di protezione impone al datore di lavoro, cui sia noto il compimento di molestie sessuali nell'ambito dell'impresa, di intervenire, adottando tutte le misure, anche di natura disciplinare ed organizzativa, necessarie a garantire la tutela dei dipendenti. Il prolungato comportamento omissivo del datore di lavoro a fronte di atti di molestia sessuale costituisce dunque violazione dell'art. 2087 c.c.; è illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice molestata ove le condotte alla stessa imputate quale giusta causa di recesso siano causalmente ricollegabili al detto comportamento omissivo; ove tale nesso di causalità sussista anche in relazione al danno biologico lamentato dalla lavoratrice, la stessa ha diritto al relativo risarcimento, che è quantificabile in via equitativa. (Trib. Milano 28/12/2001, Est. Negri della Torre, in D&L 2002, 371)
  • L'art. 2087 c.c., supportato del disposto dell'art. 41, 2° comma, Cost., impone al datore di lavoro non solo di approntare le misure di sicurezza necessarie a tutelare l'integrità fisica del lavoratore, ma anche di porre in essere tutti gli accorgimenti necessari a tutelarne la personalità morale; pertanto, ove il datore di lavoro sappia che un suo dipendente compie atti di molestia sessuale, è tenuto, secondo il tradizionale schema della "massima sicurezza fattibile", a compiere quanto necessario per impedire il reiterarsi delle molestie. (Trib. Pisa 6/10/2001, Est. Nisticò, in D&L 2002, 126)
  • Va confermata la decisione della Corte di Appello - e conseguentemente respinto il ricorso - secondo la quale, sebbene fosse risultato probatoriamente dimostrato che l'imputato dette una pacca isolata e repentina sul sedere della di lui dipendente, egli non intese compiere un vero e proprio atto di libidine sulla donna, non essendo emersi elementi per ritenere che il gesto, e cioè, quel toccamento, fosse rappresentativo di un gesto di concupiscenza di natura sessuale (Cass. 23/1/01, n. 623, pers. Ietti, est. Ebner, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 127, con nota di Sangiovanni, In tema di molestie sessuali sui luoghi di lavoro)
  • Alla lavoratrice vittima di molestie sessuali spetta il risarcimento del danno morale, da liquidarsi in via equitativa, di cui sono responsabili in solido, ai sensi degli artt. 2087, 2043, 2049 c.c., sia l'autore dell'illecito che la società datrice di lavoro (Pret. Milano 27/5/96, est. Curcio, in D&L 1997, 157)