Discriminazioni sessuali

 

  • Discriminazione di genere stabilire il medesimo requisito minimo di altezza per uomini e donne ai fini dell’assunzione di un capotreno.
    In una vicenda relativa a una lavoratrice che era rimasta esclusa dalla procedura di selezione per l’assunzione di personale con qualifica di capotreno, per difetto del requisito minimo di altezza, stabilito in 1,60 mt sia per gli uomini che per le donne – requisito che i giudici di merito avevano reputato non funzionale rispetto alle mansioni che sarebbero state assegnate alla ricorrente qualora fosse stata assunta -, la Cassazione ribadisce il principio per cui la previsione di un medesimo requisito minimo di statura per l’assunzione di uomini e donne configura una discriminazione indiretta ove detto limite risulti non oggettivamente giustificato, né pertinente e proporzionale alle mansioni derivanti dalla qualifica attribuita. La Corte conferma altresì la dichiarazione del diritto all’assunzione della lavoratrice illegittimamente esclusa e il conseguente ordine alla società di immetterla in servizio, trattandosi delle uniche pronunce idonee a rimuovere gli effetti lesivi del comportamento illegittimo, in linea con quanto previsto dall’art. 38, d.lgs. 198/06. 
    (Cass. 3/7/2023 n. 18668, Pres. Leone Rel. Amendola, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2023)
  • Il mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della Pubblica Amministrazione anche con riguardo alle prestazioni del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice - esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi - ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza. (Cass. 26/2/2021 n. 5476, Pres. Tria Est. Marotta, in Lav. nella giur. 2021, 551)
  • Ancora sul regime probatorio in caso di discriminazione per sesso nel lavoro.
    La Corte ribadisce che il regime probatorio in caso di discriminazione lavorativa per sesso, stabilito dall’art. 40 D. Lgs. n. 198/2006, non comporta un’inversione dell’onere della prova che graverebbe sul datore di lavoro, ma una semplice attenuazione dello stesso a carico della persona discriminata, il cui adempimento fa scattare l’onere del datore di provare la non discriminazione. Nel caso esaminato, una lavoratrice aveva lamentato la mancata conferma dopo un periodo di apprendistato, diversamente da altri apprendisti maschi e aveva sostenuto che tale dato statistico fosse sufficiente a invertire l’onere della prova. Viceversa la Corte lo ha escluso, essendo stato accertato in giudizio che, in un arco ragionevole di tempo (4 mesi), l’impresa aveva assunto apprendisti di ambo i sessi, non confermando poi alcuni di essi, senza sostanziali differenze tra sessi. (Cass. 15/6/2020 n. 11530, Pres. Nobile Rel. Pagetta, in Wikilabour, Newsletter n. 13/2020)
  • L’art. 40, D.Lgs. n. 198/2006 disciplina un regime probatorio attenuato: se è vero che il convenuto deve fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, è però vero che tale onere sorge solamente se il ricorrente abbia fornito al giudice elementi fattuali - desunti anche da dati di carattere statistico - relativi ai comportamenti denunciati come discriminatori, purché siano idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso o della maternità. (Cass. 15/6/2020 n. 11530, Pres. Nobile Rel. Pagetta, in Lav. nella giur. 2020, 1096)
  • L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro che, nel caso di lavoro a tempo parziale verticale, escluda i giorni non lavorati dal calcolo dei giorni di contribuzione, con conseguente riduzione del periodo di erogazione della prestazione di disoccupazione, quando la maggior parte dei lavoratori a tempo parziale verticale sia costituita da donne che subiscano le conseguenze negative di tale normativa. (Corte di Giustizia 9/11/2017, C-98/15, Pres. E Rel. Sharpston, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di G. Braico, “Part-time verticale e indennità di disoccupazione: quale parità di trattamento?”, 100)
  • Le disposizioni della direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 29 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, vanno interpretate nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro che subordina l’ammissione dei candidati al concorso per l’arruolamento alla scuola di polizia di detto Stato membro, indipendentemente dal sesso di appartenenza, a un requisito di statura minima di m. 1,70, ove tale normativa svantaggi un numero molto più elevato di persone di sesso femminile rispetto alle persone di sesso maschile e non risulti idonea e necessaria per conseguire il legittimo obiettivo che essa persegue. (Corte di Giustizia 18/10/2017, C-409/16, Pres. E Rel. Silva de Lapuerta, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di M. Matarese, “Ancora sul divieto di discriminazione indiretta di genere e i requisiti di altezza minimi nelle assunzioni”, 138)
  • In presenza di un criterio di formazione di una graduatoria per trasferimenti di lavoratori basato sulla base di un’effettiva prestazione lavorativa, costituisce discriminazione di genere l’esclusione delle ore di assenza dal lavoro a congedo di maternità e a interdizione anticipata per gravidanza. (Trib. Siracusa 10/5/2017, n. 378, Est. Favale, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di L. Lazzeroni, “Azione antidiscriminazione e decadenza dalla impugnazione del trasferimento della lavoratrice”, 522)
  • Non è soggetto a termini di decadenza il diritto a far valere, ex art. 38 del d.lgs. 198/2006, la discriminazione insita nei criteri adottati come presupposto per il trasferimento di lavoratori ad altra unità produttrice. (Trib. Siracusa 10/5/2017, n. 378, Est. Favale, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di L. Lazzeroni, “Azione antidiscriminazione e decadenza dalla impugnazione del trasferimento della lavoratrice”, 522)
  • Il d.l. 64/2010, art. 3, comma 7, convertito con la l. 100/2010, potrebbe porsi, stante lo specifico e caratterizzante riferimento al sesso e all’età, in conflitto con il principio di non discriminazione che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ogni fonte strictosensu e, anzi, fonte di diritto primario, sancisce all’art. 21, con l’inserimento della non discriminazione tra i diritti fondamentali della persona e, quindi, nell’ambito dei principi generali del diritto comunitario, nonché con il successivo art. 23; potrebbe porsi altresì in contrasto con l’art. 157 TFUE il quale sancisce il principio di parità retributiva fra uomini e donne; nonché con la Direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. (Cass. 9/3/2017, n. 6101, Pres. Napoletano Est. Lorito, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di A. Curcio, “Un caso di rinvio pregiudiziale (e di mancata disapplicazione) in tema di discriminazione di genere”, 860)
  • Costituisce una discriminazione di genere la mancata equiparazione delle assenze per congedo di maternità, per congedi parentali e per permessi per malattia dei figli alla presenza effettiva in servizio ai fini della quantificazione del premio di risultato. (Trib. Torino 26/10/2016, Est. Filicetti, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M. Peruzzi, “Criteri di distribuzione dei premi di risultato e possibili discriminazioni retributive di genere”, 278)
  • Non costituisce discriminazione di genere indiretta per motivi di genere la situazione in cui le lavoratrici in regime di lavoro a tempo parziale risultino maggiormente pregiudicate rispetto ai lavoratori part-time, all’esito di una procedura selettiva di progressione economica, quando, per effetto dell’applicazione di uno dei criteri stabiliti nel bando, il punteggio è parametrato alle ore di attività lavorativa prestata. (Corte app. Torino 18/10/2016, Pres. Girolami Est. Milani, in Lav. giur. Lav. prev. soc. 2017, S. Sardaro, “Discriminazione indiretta: quale tutela per le lavoratrici part-time?”, 286)
  • Il maggior numero di domande di assunzione da parte delle donne rispetto a quelle presentate dagli uomini può giustificare che sia presente un numero più elevato di lavoratrici, ma non giustifica la avvenuta assunzione di personale femminile quasi esclusivamente a tempo parziale, mentre la assunzione degli uomini è avvenuta quasi esclusivamente a tempo pieno. (Corte app. Milano 9/11/2012, Pres. Curcio Rel. Sala, in Lav. nella giur. 2013, 207)
  • È illegittima, quale discriminazione indiretta a sfavore della lavoratrice, la disposizione del d.m. n. 88/1999 del Ministero dei trasporti e della navigazione nella parte in cui prevede quale requisito per la partecipazione a un concorso per l’assunzione presso un’azienda di trasporti la statura minima di m. 1,55 senza distinguere tra il sesso dei partecipanti al concorso, laddove la statura inferiore non incida – tenuto conto delle specifiche mansioni della qualifica oggetto del concorso – sulle esigenze del servizio e la sicurezza degli impianti. (Cass. 12/1/2012 n. 234, Pres. Vidiri Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Giorgio Mannacio, 361)
  • Costituisce discriminazione diretta di genere il rifiuto da parte della pubblica amministrazione di stipulare un contratto a termine nei confronti di candidata risultata idonea in base a graduatoria, determinato dallo stato di gravidanza di quest'ultima; ne consegue, oltre all'eventuale danno patrimoniale, un danno non patrimoniale ravvisabile nella frustrazione dovuta alla perdita di un'occasione lavorativa e nella presumibile tensione e sofferenza provocata nel delicato periodo della gestazione, equitativamente quantificabile in una somma pari all'importo delle retribuzioni che sarebbero state percepite nel caso in cui il rapporto fosse stato attivato. (Trib. Prato 10/9/2010, Est. Serra, in D&L 2010, con nota di Lisa Amoriello, "La discriminazione di genere nella fase dell'accesso al lavoro alle dipendenze della PA", 1063)
  • Le procedure selettive di accesso ai pubblici uffici devono uniformarsi al principio costituzionale della parità di trattamento. La condizione di maternità impone alle pubbliche amministrazioni di adottare ogni misura necessaria per garantire la tutela della donna e della maternità e assicurarle la partecipazione al concorso in condizioni di parità effettiva con gli altri candidati. (TAR Calabria, Sez. II, 10/6/2010, Pres. Fiorentino Est. Lopilato, in Riv. it. dir. lav. 2011, con nota di Maura Ranieri, "Tutela della maternità e concorso pubblico: un caso evidente di discriminazione", 138)
  • Poiché la procedura ex art. 38 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 trova applicazione solo in relazione alle ipotesi di discriminazione di genere previste dal 1° comma della norma stessa, la relativa azione non è esperibile laddove venga in contestazione la sospensione in Cig della lavoratrice durante il periodo di tutela di cui all’art. 54 D.Lgs. 26/3/01 n. 151. (Trib. Milano 24/5/2010, ord., Est. Pattumelli, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, “L’azione speciale ex art. 38 Codice Pari Opportunità dopo la novella del 2010: ancora un’azione zoppa?”, 811)
  • Non costituisce discriminazione per ragioni di genere la sospensione in Cig della lavoratrice madre durante il periodo di cui all’art. 54 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 qualora il datore di lavoro dimostri che la mancata sospensione di altri addetti al medesimo reparto risulta giustificata dalle differenti condizioni degli stessi (nella specie il giudice ha tra l’altro considerato valida giustificazione della sospensione del lavoro, per cessazione della commessa cui la dipendente era addetta, il rifiuto della stessa di accettare una riduzione salariale di 350 euro mensili posta dalla società quale condizione per l’assegnazione ad altra commessa di lavoro. (Trib. Milano 24/5/2010, ord., Est. Pattumelli, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, “L’azione speciale ex art. 38 Codice Pari Opportunità dopo la novella del 2010: ancora un’azione zoppa?”, 811)
  • E' vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo d'attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. (Cons. St. 10/5/2010 n 2754, Pres. Baccarini Rel. F. Caringella, in Lav. nella giur. 2010, 931)  
  • La dimostrazione della discriminazione in ragione del sesso improntata al criterio di riparto degli oneri di cui all'art. 40 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 può risultare da indici quali demansionamento, negazione di congedi parentali, contestazioni disciplinari, mancata corresponsione del premio di produzione, illegittimo licenziamento per g.m.o.; costituiscono dati statistici ex art. 40 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 le vicende di altre dipendenti della datrice parimenti discriminate in quanto madri. (Trib. Pisa 2/4/2009, Est. Santoni, in D&L 2009, con nota di Chiara Zambrelli, "In tema di licenziamento di lavoratrice madre", 801)
  • L'art. 141 Ce deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in materia di retribuzione dei dipendenti pubblici come quella di cui alla causa principale che, da un lato, definisce le ore straordinarie effettuate sia dai dipendenti a tempo pieno sia da quelli a tempo parziale come ore che essi svolgono oltre il loro orario individuale di lavoro e, dall'altro, retribuisce tali ore secondo una tariffa inferiore alla tariffa oraria applicata alle ore effettuate entro l'orario individuale di lavoro, in modo tale che i dipendenti a tempo parziale sono retribuiti in modo meno vantaggiosi dei dipendenti a tempo pieno per quanto riguarda le ore che effettuano oltre il loro orario individuale di lavoro e nei limiti del numero di ore dovute da un dipendente a tempo pieno nell'ambito del suo orario, nel caso in cui: tra l'insieme dei lavoratori cui si applica tale normativa, sia danneggiata una percentuale notevolmente più elevata di lavoratori di sesso femminile che di lavoratori di sesso maschile; la disparità di trattamento non sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. (Corte di Giustizia CE 6/12/2007, causa C-300/06, Pres. Tizzano Rel. A. Borg Barthet, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso e Giovanni Paganuzzi, "Part-time e discriminazione: la Corte di Giustizia e la "verifica fattuale" delle norme nazionali",  73)
  • L'espressione anzianità di servizio di cui agli artt. 6 e 7 L. 30/12/71 n. 1204 (ora artt. 22 e 32 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 TU in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità) è indicativa di una nozione unitaria e conseguentemente vieta al datore di lavoro di interpretare una clausola collettiva, che sclue dal computo dell'anzianità di servizio utile per progressioni automatiche di carriera le assenze volontarie (nella specie l'art6. 18 Ccnl Casse di risparmio), come rifertita anche alle assenze dal lavoro per fruizione dell'ex astensione facoltativa; questa equiparazione infatti viola l'art 15 SL, in quanto costituisce patto volto a discriminare nell'assegnazione delle qualifiche o a recare altrimenti pregiudizio a un lavoratore in ragione del suo sesso e costituisce discriminazione indiretta ai sensi dell'art. 4, comma 2°, L. 10/4/91 n. 125 (ora art. 25, 2° comma, D.Lgs. 11/4/06 n. 198, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna). (Trib. Prato 21/11/2007, Est. Rizzo, in D&L 2008, con nota di Fabrizio Amato e Irene Romoli, "Assenza per maternità e anzianità di servizio: profili individuali e collettivi della discriminazione di genere; una concreta ipotesi di definizione di un piano di rimozione delle discriminazioni". 574) 
  • La nozione oggettiva delle discriminazioni di genere ex art. 4, 1° e 2° comm, L. 10/4/91 n. 125 (ora art. 25 D.Lgs. 11/4/06 n. 198) implica l'irrilevanza dell'intento discriminatorio e azione in giudizio di tipo collettivo della Consigliera di Parità (art. 4, 9° comma, L. 125/91, ora art. 37, comma 3°, D.Lgs. 198/06), ha come presupposto non i singoli comportamenti discriminatori in ragione del sesso ai danni di soggetti individuati, bensì fatti, patti o comportamenti discriminatori, idoeni a svantaggiare, in ragione del sesso, una collettività di persone, anche non individuabili in modo immediato; tale azione collettiva è ammissibile anche quando venga proposta contestualmente con l'intervento in giudizio a sostegno delle lavoratrici, ai sensi dell'art. 36, 2° comma, D.Lgs. 198/06, e può condurre all'emanazione dell'ordine di definizione del piano di rimozione delle discriminazioni accertate. (Trib. Prato 21/11/2007, Est. Rizzo, in D&L 2008, con nota di Fabrizio Amato e Irene Romoli, "Assenza per maternità e anzianità di servizio: profili individuali e collettivi della discriminazione di genere; una concreta ipotesi di definizione di un piano di rimozione delle discriminazioni". 574)
  • In materia di requisiti per l'assunzione, la previsione di un'altezza minima identica per gli uomini e per le donne è incostituzionale perché, presupponendo erroneamente l'insussistenza di diversità di statura mediamente riscontrabili tra uomini e donne, comporta una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime. (Cass. 13/11/2007 n. 23562, Pres. Ciciretti Est. Di Nubila, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Francesca Savino, "Discriminazione indiretta e requisito della statura minima per l'assunzione", 563)
  • Il principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori osta a una normativa nazionale che riservi alle sole addette alle pulizie - quindi, esclusivamente a donne - l'assunzione mediante contratto a tempo indeterminato per un lavoro a tempo parziale, poichè ne consegue una discriminazione indiretta a loro danno per ciò che riguarda le prospettive di inserimento nell'organico a tempo pieno. (Corte di Giustizia CE 10/3/2005 n. C-196/02, Pres. Jann Rel. Rosas, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Antonella Occhino, "La Corte di Giustizia torna sulla parità tra uomini e donne: l'astratta giustificabilità della discriminazione diretta", 3)
  • Il principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori osta a una normativa nazionale che preveda un calcolo dell'anzianità di servizio dei lavoratori a tempo parziale pro quota in un caso in cui la totalità di tali lavoratori sia costituita da donne, derivandone una discriminazione indiretta a danno di queste; a meno che il datore di lavoro non provi che quel calcolo sia giustificato da fattori la cui obiettività dipende segnatamente dallo scopo perseguito, attraverso la considerazione dell'anzianità di servizio e, nel caso in cui si tratti di remunerare l'esperienza acquisita, dal rapporto tra la natura delle mansioni svolte e l'esperienza acquisita mediante l'espletamento di tali mansioni per un determinato numero di ore di lavoro. (Corte di Giustizia CE 10/3/2005 n. C-196/02, Pres. Jann Rel. Rosas, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Antonella Occhino, "La Corte di Giustizia torna sulla parità tra uomini e donne: l'astratta giustificabilità della discriminazione diretta", 3)
  • Il divieto oggettivo di discriminazione dei lavoratori, per ragioni collegate all’appartenenza ad un determinato sesso, opera sicuramente anche nei rapporti di lavoro autonomo, sulla base della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento e, in particolare, delle regole poste dal diritto comunitario. Discriminazione, infatti, come definita nel più recente intervento legislativo in materia (articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) si ha quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (discriminazione c.d. diretta), ovvero quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (discriminazione c.d. indiretta). (Cass. 26/5/2004 n. 10179, Pres. Senese Rel. Picone, in Lav. e prev. oggi 2004, 1839)
  • Costituisce discriminazione sessuale indiretta di natura collettiva nell'ambito della progressione di carriera, la richiesta, ai fini del conseguimento della qualifica superiore al quarto livello (c.c.n.l. settore metalmeccanico), di un titolo di studio di scuola tecnica superiore, trattandosi di un requisito che, seppure di carattere formalmente neutro, è riferibile solo al personale di sesso maschile, ove non risulti dimostrata l'incidenza di tale requisito sulla capacità a svolgere le mansioni superiori (nella specie, la società resistente non aveva mosso alcuna contestazione in ordine alle risultanze della prova statistica - fornita dalle ricorrenti ai sensi dell'art. 4, 5° comma, l. n. 125/91 - né addotto alcuna prova al fine di dimostrare l'insussistenza della discriminazione) (Trib. Catania 22/11/00, est. Maiore, in Foro it. 2001, pag. 1778)
  • La società che ha posto in essere la condotta discriminatoria sessuale indiretta ha l'obbligo di predisporre, entro il termine di tre mesi, un piano di rimozione delle discriminazioni, mediante un criterio che faccia riferimento alla valutazione della professionalità pregressa ed escludendo ogni riferimento al possesso di diploma di scuola superiore (Trib. Catania 22/11/00, est. Maiore, in Foro it. 2001, pag. 1778)
  • Il comportamento del dirigente che, in un contesto lavorativo caratterizzato da fastidiosi e rumoreggianti apprezzamenti da parte dei lavoratori maschi in ordine all'abbigliamento di una lavoratrice, inviti quest'ultima a modificare l'abbigliamento anziché invitare i lavoratori ad astenersi da comportamenti offensivi deve considerarsi illecito perché lesivo dei diritti di non discriminazione per motivi di sesso ai sensi degli artt. 3 Cost., 1 L. 903/77 e 4 L. 125/91, nonché sotto il profilo della violazione della dignità e della riservatezza della lavoratrice ex art. 2 Cost., con conseguente obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno, ai sensi degli artt. 2049 e 2087 c.c., eventualmente da liquidarsi in via equitativa (nella fattispecie, il responsabile del reparto aveva detto alla lavoratrice di non indossare più la minigonna ed evitare vestiti troppo scollati, che turbavano gli addetti al reparto, invitandola a indossare una tuta da metalmeccanico) (Pret. Milano 12/1/95, est. Curcio, in D&L 1995, 349, nota VETTOR, Minigonna e discriminazione sessuale)