Normativa comunitaria

  • Anche le dichiarazioni pubbliche di un avvocato di non intendere assumere mai, nel proprio studio, personale omosessuale concretano una discriminazione in materia di accesso all’occupazione e al lavoro. Il diritto dell’Unione non osta a che legittimato all’azione diretta a inibire la discriminazione suddetta, anche attraverso la richiesta di risarcimento danno, possa essere un’associazione di avvocati che ha lo scopo di difendere in giudizio persone discriminate in ragione dell’orientamento sessuale e di promuovere il rispetto dei diritti di tale categoria di persone.
    Nel corso di un’intervista radiofonica, un avvocato aveva dichiarato che non assumerebbe mai o avvierebbe una collaborazione nel proprio studio con persone omosessuali. Un’associazione di avvocati avente per statuto il compito di difendere gli omosessuali e diffondere la cultura del rispetto dei loro diritti aveva promosso un giudizio per far accertare il carattere discriminatorio, ai sensi del diritto comunitario, di tali dichiarazioni e ottenere un risarcimento danni. La questione perviene alla Corte giustizia sotto due profili: a) se le dichiarazioni dell’avvocato possano rientrare nelle “condizioni di accesso all’occupazione…” possibile oggetto di discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale; b) se l’azione possa essere promossa da un’associazione di avvocati, come quella agente in giudizio. La risposta della Corte è nel senso che: aa) soluzione affermativa alla stregua del diritto comunitario per la prima questione (con la conseguente possibilità di comprimere legittimamente il diritto di manifestazione del pensiero), anche se le dichiarazioni non si riferiscano a una procedura di assunzione in atto, purché non si tratti di dichiarazioni meramente ipotetiche; bb) il diritto comunitario non impone ma non osta a che gli Stati membri prevedano una tale possibilità. (Corte di Giustizia UE, Grande Camera, 23/4/2020, causa n. C-507/18, in Wikilabour, Newsletter n. 9/2020)
  • La nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» contenuta all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre  2000,  che  stabilisce  un  quadro  generale  per  la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico. (Corte di Giustizia 23/4/2020, C-507/18, Pres. Lenaerts Rel. Jarukaitis, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di M. Peruzzi, “Dichiarazioni omofobe e diritto antidiscriminatorio: conferme e limiti della giurisprudenza UE nella sentenza Taormina”, 360)
  • La direttiva 2000/78/Ce deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata ed, eventualmente, a ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa. (Corte di Giustizia 23/4/2020, C-507/18, Pres. Lenaerts Rel. Jarukaitis, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di M. Peruzzi, “Dichiarazioni omofobe e diritto antidiscriminatorio: conferme e limiti della giurisprudenza UE nella sentenza Taormina”, 360)
  • La direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, deve essere interpretata nel  senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede il diritto a un’integrazione della pensione per le donne che abbiano avuto almeno due figli biologici  o adottati e siano titolari, nell’ambito di un regime del sistema di previdenza sociale nazionale di pensioni  contributive di invalidità permanente, mentre gli uomini che si trovano in una situazione identica non hanno diritto a una siffatta integrazione della pensione. (Corte di Giustizia 12/12/2019, C-450/18, Pres. Bonichot Rel. Safjan, con nota di L. Di Cataldo, “Le azioni positive alla prova delle trasformazioni sociali: un altro caso di discriminazione diretta a danno degli uomini?”, 339)
  • Una controversia rientra nell’ambito di applicazione della Direttiva n. 78/2000/Ce del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, ove sussista il presupposto oggettivo dell’attinenza della controversia stessa alle condizioni di lavoro e sia presente una condizione di handicap, la cui nozione, ricavabile dal diritto eurounitario come interpretato dalla Corte di Giustizia, presuppone la presenza di una limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche di lunga durata, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. (Cass. 19/3/2018 n. 6798, Pres. Di Cerbo Est. Spena, in Riv. It. Dir. Lav. 2019, con nota di M. Aimo, “Inidoneità sopravvenuta alla mansione e licenziamento: l’obbligo di accomodamenti ragionevoli preso sul serio dalla Cassazione”, 145)
  • L’articolo 19, paragrafo 1, della direttiva 2006/54/C del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, dev’essere interpretato nel senso che esso si applica a una situazione come quella oggetto del procedimento principale, in cui una lavoratrice in periodo di allattamento contesta, dinanzi a un organo giurisdizionale o dinanzi a qualsiasi altro organo competente dello Stato membro interessato, la valutazione dei rischi associati al suo posto di lavoro, in quanto non sarebbe stata effettuata conformemente all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. (Corte di Giustizia 19/10/2017, C-531/15, Pres. Da Cruz Vilaça, Rel. Biltgen, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di F. Coppola, “Il diritto della lavoratrice all’allattamento del figlio”, 111)
  • L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a recedere al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari. (Corte di Giustizia 19/7/2017, C-143/16, Pres. Silva de Lapuerta, Rel. Arabadjiev, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di F. Marinelli, Quando il datore di lavoro ha ragione: la CGUE annovera il contratto intermittente stipulato con gli under 25 tra le disparità di trattamento giustificate”, 878, e in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di O. Bonardi, “Il divieto di discriminazioni per età alla deriva: note sul caso Abercrombie”, 545)
  • L’art. 12 della Direttiva n. 2011/98 deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale in base alla quale il cittadino di un paese terzo, titolare di un permesso unico di lavoro, non può beneficiare di una prestazione come l’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 65 della l. n. 448/1998. (Corte di Giustizia 21/6/2017, C-449/16, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, con nota di W. Chiaromonte, “Diniego dell’assegno per il nucleo familiare, discriminazione collettiva per la nazionalità e legittimazione ad agire delle associazioni”, 109)
  • La mancata concessione ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo dell’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 65 della l. n. 448/1998 per il periodo precedente al 1.7.2013 costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale in relazione alle prestazioni essenziali previsto dalla Direttiva n. 2003/109 e attuato dall’art. 13, c. 1, l. n. 97/2013. (Cass. 8/5/2017, n. 11165, ord., Pres. D’Antonio Est. Riverso, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, con nota di W. Chiaromonte, “Diniego dell’assegno per il nucleo familiare, discriminazione collettiva per la nazionalità e legittimazione ad agire delle associazioni”, 109)
  • La mancata concessione ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo dell’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 65 della l. n. 448/1998 per il periodo precedente al 1.7.2013 costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale in relazione alle prestazioni essenziali previsto dalla Direttiva n. 2003/109 e attuato dall’art. 13, c. 1, l. n. 97/2013. (Cass. 8/5/2017, n. 11166, ord., Pres. D’Antonio Est. Riverso, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, con nota di W. Chiaromonte, “Diniego dell’assegno per il nucleo familiare, discriminazione collettiva per la nazionalità e legittimazione ad agire delle associazioni”, 109)
  • L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva. (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 14/3/2017, C-157/15, Pres. Lenaerts Est. Biltgen, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di V. Nuzzo, “La Corte di Giustizia e il velo islamico”, 418)
  • Siffatta norma interna di un’impresa privata può invece costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare. (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 14/3/2017, C-157/15, Pres. Lenaerts Est. Biltgen, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di V. Nuzzo, “La Corte di Giustizia e il velo islamico”, 418)
  • L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tenere conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione. (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 14/3/2017, C-188/15, Pres. Lenaerts Est. Biltgen, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di V. Nuzzo, “La Corte di Giustizia e il velo islamico”, 418)
  • Gli articoli 2, paragrafo 2, e 10, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che fatti come quelli che hanno dato origine alla controversia principale possono essere qualificati alla stregua di “fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione” per quanto riguarda una squadra di calcio professionistica, nel caso in cui le dichiarazioni controverse provengano da una persona che si presenta ed è percepita, nei mezzi di informazione e nella società, come il principale dirigente di tale squadra professionistica, senza che sia per questo necessario che essa disponga della capacità di vincolare o rappresentare giuridicamente tale società in materia di assunzioni. (Corte di Giustizia 25/4/2013 C-81/12, Pres. Ilesic Est. Caoimh, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Laura Calafà, “Dichiarazioni omofobiche nel calcio: il caso FC Steaua Bucarest e la discriminazione per orientamento sessuale alla Corte di Giustizia, 133)
  • L’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che, qualora fatti come quelli che hanno dato origine alla controversia principale siano qualificati come “fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione” fondata sulle tendenze sessuali in occasione del reclutamento dei giocatori da parte di una squadra di calcio professionistica, l’onere della prova, così come adottato dall’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, non implica che la prova richiesta risulti impossibile da produrre se non a pena di ledere il diritto al rispetto della vita privata. (Corte di Giustizia 25/4/2013 C-81/12, Pres. Ilesic Est. Caoimh, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Laura Calafà, “Dichiarazioni omofobiche nel calcio: il caso FC Steaua Bucarest e la discriminazione per orientamento sessuale alla Corte di Giustizia”, 133)
  • L’articolo 17 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale secondo cui, in caso di accertamento di una discriminazione fondata sulle tendenze sessuali, nell’accezione di tale direttiva, qualora tale accertamento avvenga decorso un termine di prescrizione di sei mesi dalla data dei fatti, non è possibile pronunciare altro che un ammonimento come quello di cui al procedimento principale, in quanto, in applicazione di tale normativa, siffatta discriminazione non è sanzionata secondo modalità sostanziali e procedurali che attribuiscono alla sanzione un carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo. Spetta al giudice del rinvio valutare se ciò si verifichi nel caso della normativa oggetto del procedimento principale e, all’occorrenza, interpretare il diritto nazionale quanto più possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima. (Corte di Giustizia 25/4/2013 C-81/12, Pres. Ilesic Est. Caoimh, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Laura Calafà, “Dichiarazioni omofobiche nel calcio: il caso FC Steaua Bucarest e la discriminazione per orientamento sessuale alla Corte di Giustizia”, 133)
  • L’articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, della Direttiva n. 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, va interpretato nel senso che esso non osta a un provvedimento nazionale, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, che permette a un datore di lavoro di porre fine al contratto di lavoro di un dipendente per il solo motivo che quest’ultimo ha raggiunto l’età di 67 anni, e che non tiene conto del livello della pensione di vecchiaia che l’interessato percepirà, una volta che esso è obiettivamente e ragionevolmente giustificato da un obiettivo legittimo relativo alla politica del lavoro e del mercato del lavoro e costituisce un mezzo appropriato e necessario per il suo conseguimento. (Corte di Giustizia UE 5/7/2012, Causa C-141/11, Pres. Cunha Rodrigues Rel. Arabadjiev, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Roberto Cosio, 75, e in D&L 2012, con nota di Alberto Guariso, “Ancora due pronunce della Corte di Giustizia in tema di discriminazione per età”, 351)
  • L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di un contratto collettivo che, ai fini dell’inquadramento nelle categorie lavorative previste da quest’ultimo e, pertanto, della determinazione dell’importo della retribuzione, tiene conto soltanto dell’esperienza lavorativa maturata come assistente di volo di una determinata compagnia aerea, con esclusione dell’esperienza sostanzialmente identica maturata presso un’altra compagnia appartenente allo stesso gruppo d’imprese. (Corte di Giustizia UE 7/6/2012, causa C-132/11, Pres. Cunha Rodrigues Rel. Arabadjiev, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Roberto Cosio, 75, e in D&L 2012, con nota di Alberto Guariso, “Ancora due pronunce della Corte di Giustizia in tema di discriminazione per età”, 351
  • La direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che non sono escluse dal suo ambito di applicazione ratione materiae le pensioni complementari di vecchiaia come quelle versate ai propri ex dipendente dalla Freie und Hansestadt Hamburg, in quanto esse costituiscono retribuzione ai sensi dell’art. 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. (Corte di Giustizia, Grande Sez., 10/5/2011, C-147/08, Pres. Skouris Rel. Svaby, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di M. Borzaga, “Unioni civili, trattamenti pensionistici e discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale: fin dove può spingersi il diritto comunitario del lavoro?”, 215)
  • Il diritto alla parità di trattamento può essere rivendicato da un singolo non prima della scadenza del termine di trasposizione della direttiva 2000/78/CE, ovvero a partire dal 3 dicembre 2003, senza necessità di attendere che il legislatore nazionale renda il diritto interno conforme a quello comunitario. (Corte di Giustizia, Grande Sez., 10/5/2011, C-147/08, Pres. Skouris Rel. Svaby, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di M. Borzaga, “Unioni civili, trattamenti pensionistici e discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale: fin dove può spingersi il diritto comunitario del lavoro?”, 215)
  • Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia mediante rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue la questione se l'art. 15 della direttiva 2000/43/Ce del 29/6/2000, nella parte in cui prescrive che le sanzioni irrogate devono essere effettive proporzionate e dissuasive, essendo riferibile anche alla rimozione degli effetti e all'adozione di un efficace piano di rimozione, debba essere interpretato nel senso di ricomprendere, fra le discriminazioni accertate e gli effetti da rimuovere anche al fine di evitare ingiustificate discriminazioni alla rovescia, tutte le violazioni incidenti sui destinatari della discriminazione, anche se non siano parte della controversia. In caso di risposta positiva, la Corte di Giustizia deve altresì essere investita della questione - non riguardante il soggetto in causa nel giudizio a quo - se gli artt. 2 e 6 del Tue, gli artt. 18, 45 e 49 del Tfue e gli artt. 1, 21 e 34 della Carta di Nizza ostino a una normativa interna che prevede per i cittadini comunitari l'obbligo di rendere dichiarazione di appartenenza o aggregazione etnica a uno dei tre gruppi linguistici presenti in Alto Adige/Sudtirol e di risiedere o lavorare nel territorio provinciale da almeno 5 anni per accedere a un "sussidio casa". (Trib. Bolzano 24/11/2010, ord., est. Puccetti, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, "Un'ipotesi di contrasto tra Cedu e norme interne di fondamento costituzionale", 1179)
  • Integra un trattamento discriminatorio di genere in violazione del principio comunitario di parità retributiva tra uomini e donne l'art. 7 della L. 29/7/71 n. 587 (disciplinante il Fondo speciale di previdenza, costituito presso l'Inps, per gli impiegati dipendenti delle società titolari del servizio di riscossione nazionale) nella parte in cui subordina la facoltà di richiedere il rimborso pari al 75% dei contributi versati - oltre che al conseguimento del requisito contributivo minimo per la pensione di anzianità e alla cessazione dal servizio presso esattorie e ricevitorie - alla proposizione della domanda "entro il quinto anno precedente il compimento dell'età pensionabile secondo le norme del Fondo"; ne segue l'obbligo del giudice di disapplicare la norma nazionale in quanto in contrasto con il diritto comunitario. (Trib. Pisa 6/5/2010, Est. Tarquini, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, "Fondo speciale esattorie e discriminazione di genere", 1171)
  • Il principio di non discriminazione in base all'età, principio generale del diritto dell'Unione, sancito anche dall'art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, ed espresso concretamente nella direttiva 2000/78/Ce, osta a una tale normativa nazionale. Essa infatti non è idonea a conseguire l'obiettivo di offrire al datore di lavoro una maggiore flessibilità nella gestione del personale, alleviando l'onere per quanto attiene al licenziamento dei giovani lavoratori, in quanto si applica a tutti i dipendenti assunti dall'impresa prima del venticinquesimo anno di età, indipendentemente dalla loro età al momento del licenziamento. Del pari, tale normativa è inidonea a realizzare la finalità di rafforzare la tutela dei lavoratori in funzione del tempo trascorso nell'impresa, in quanto l'allungamento del termine di preavviso di licenziamento a seconda dell'anzianità del dipendente è ritardato per qualsiasi lavoratore assunto dall'impresa prima dei 25 anni di età, anche laddove l'interessato vanti, al momento del licenziamento, una lunga anzianità di servizio in tale impresa. (Corte di Giustizia CE 19/1/2010, causa C-555/07, Pres. Skouris Rel. Lindh, in D&L 2009, con nota di Silvia Borelli, “La Corte di Giustizia (ancora) alle prese con discriminazioni in ragione di età”, 932, e in Lav. nella giur. 2010, con nota di Roberto Cosio, 1079)
  • Gli artt. 1, 2 e 6 della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, vanno interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che, al fine di non sfavorire la formazione generale rispetto alla formazione professionale e di promuovere l'inserimento dei giovani apprendisti sul mercato del lavoro, esclude che siano presi in considerazione i periodi di lavoro svolti precedentemente al compimento del diciottesimo anno di età ai fini della determinazione dello scatto nel quale vengono collocati i dipendenti a contratto del pubblico impiego di uno Stato membro. (Corte di Giustizia 18/6/2009, causa C-88/08, Pres. Rosas Est. Lindh, in Riv. it. dir. lav. 2010,  con nota di Calafà, "Le discriminazioni fondate sull'età: sequenza giurisprudenziale recente del fattore di rischio 'emergente'", 956)
  • L'art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 non osta a un provvedimento nazionale che non contenga un elenco puntuale delle finalità che giustificano un'eventuale deroga al principio del divieto di discriminazione fondate sull'età. Tuttavia, il suddetto art. 6, n. 1, consente di derogare a tale principio unicamente in relazione ai soli provvedimenti giustificati da finalità legittime di politica sociale, come quelle connesse alla politica del lavoro, del mercato del lavoro o della formazione professionale, e purché i mezzi per il perseguimento di tali finalità siano appropriati e necessari. Spetta al giudice nazionale verificare se la normativa in esame nella causa principale risponda a una simile finalità legittima e se l'autorità legislativa o regolamentare nazionale potesse legittimamente ritenere, tenuto conto del margine discrezionale di cui gli Stati membri dispongono in mateia di politica sociale, che i mezzi prescelti fosse appropriati e necessari alla realizzazione di tale finalità. (Corte Giustizia Ce 5/3/2009 causa C-388/07, Pres. Rosas Rel. Lindh, in D&L 2009, 929, e in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Calafà, "Le discriminazioni fondate sull'età: sequenza giurisprudenziale recente del fattore di rischio 'emergente'", 955) 
  • Nel caso in cui il ricorrente fosse legittimato a far valere un danno provocato dalla presunta discriminazione subita, spetterebbe al giudice del rinvio, alla luce della normativa nazionale vigente, valutare la natura del risarcimento al quale il ricorrente avrebbe diritto. (Corte di Giustizia 17/7/2008, causa n. 94/07, Pres. Tizzano Rel. Levits, in Riv. It. Dir. Lav. 2009, con nota di Silvia Borelli, “La nozione di ‘lavoratore’ e l’efficacia dell’art. 39 Trattato CE”, 225) 
  • Il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori di una determinata razza o etnia configura una discriminazione diretta nell'assunzione ai sensi dell'art. 2, n. 2, lett. a) della direttiva 2000/43/Ce (che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica) in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente gli aspiranti dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro. L'esistenza di tali dichiarazioni costituisce elemento sufficiente a far presumere, ai sensi dell'art. 8, n. 1, della medesima direttiva, l'attuazione di una paolitica di assunzione direttamente discriminatoria, sicché incombe al datore di lavoro l'onere di provare che la prassi effettiva di assunzione da parte dell'impresa non corrisponde a tali dichiarazioni. (Corte di Giustizia CE 10/7/2008, causa n. C-54/07, Pres. C.W.A. Timmermans, Rel. Bonichot, in D&L 2008, con nota di Cristina Cominato, "Discriminazione preannunciata del datore di lavoro e legittimazione ad agire", 883, e in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di F. Savino, "Discriminazione razziale e criteri di selezione del personale", 235)
  • In presenza di una violazione del divieto di discriminazione per ragioni di razza o etni, le sanzioni da applicare devono sempre rispondere - ai sensi dell'art. 15 Direttiva 2000/43 - ai requisiti di effettività, proporzionalità, dissuasività anche qualora le vittime del comportamento discriminatorio non siano concretamente individuabili. (Corte di Giustizia CE 10/7/2008, causa n. C-54/07, Pres. C.W.A. Timmermans, Rel. Bonichot, in D&L 2008, con nota di Cristina Cominato, "Discriminazione preannunciata del datore di lavoro e legittimazione ad agire", 883)
  • La direttiva del Consiglio 9 febbraio1976, n. 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, osta a una normativa nazionale che non riconosce a una lavoratrice che si trova in periodo di astensione dal lavoro per maternità gli stessi diritti riconosciuti ad altri vincitori dello stesso concorso per quanto riguarda le condizioni di accesso alla carriera di dipendente di ruolo, posticipando la sua entrata in servizio alla scadenza di tale periodo, senza prendere in considerazione la durata del detto periodo nel calcolo dell'anzianità di servizio di questo lavoratore. (Corte di Giustizia CE, causa n. C-294/04, Pres. Timmermans Rel. Kuris, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Valentina Beghini, "Parità di trattamento tra uomini e donne e accesso al lavoro in qualità di dipendente pubblico: un interessante esempio di applicazione del principio del mainstreaming", 249)
  • Qualora uno stato membro decida di punire una violazione del divieto di discriminazione mediante il riconoscimento di un indennizzo, questo deve essere tale da garantire un effetto dissuasivo reale nei confronti del datore di lavoro e in ogni caso deve essere adeguato al danno subito. Di conseguenza, nell’ipotesi di discriminazione fondata sul sesso realizzatasi in sede pre-assuntiva, la direttiva osta a disposizioni nazionali che determinano un limite massimo a detto risarcimento nei confronti del candidato che, in mancanza dell’atto discriminatorio, avrebbe ottenuto il posto di lavoro; la fissazione di tale limite massimo è invece consentita nell’ipotesi in cui il candidato vittima della discriminazione non avrebbe comunque ottenuto il posto di lavoro (Corte di Giustizia delle Comunità Europee 22/4/97, causa C-180/95, pres. Rodriguez Iglesias, rel. Mancini, in D&L 1997, 733, n. Romeo, Discriminazione sessuale, colpa del datore di lavoro e tecniche risarcitorie)
  • Le disposizioni legislative nazionali che prevedono la colpa del datore di lavoro quale requisito per il risarcimento del danno subito a causa di una discriminazione sessuale sono contrarie alla direttiva Cee 9/2/76 n.207 (Corte di Giustizia delle Comunità Europee 22/4/97, causa C-180/95, pres. Rodriguez Iglesias, rel. Mancini, in D&L 1997, 733, n. Romeo, Discriminazione sessuale, colpa del datore di lavoro e tecniche risarcitorie)