Fallimento e procedure concorsuali

PREMESSA

In data 14/02/19 è stato pubblicato in GU il DL 12 gennaio 2019 n. 14 titolato Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155.

Le novità più significative entreranno in vigore dal 15 agosto 2020, tra le quali:

-          Il termine fallimento verrà sostituita dall’espressione liquidazione giudiziale,

-          verrà istituito un sistema di monitoraggio dell’impresa, finalizzato a favorire la continuità aziendale, inteso come il mezzo più idoneo a superare la crisi,

-          saranno privilegiate le procedure alternative rispetto a quelle dell’esecuzione giudiziale,

-          verranno ridotti i tempi e i costi delle procedure concorsuali.

Tuttavia, alcune disposizioni contenute nel decreto legge in esame sono in vigore già dal 15 marzo 2019.

In particolare:

-          alle sezioni specializzate in materia di imprese è attribuita la competenza per i procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza e le controversie che ne derivano relativi alle imprese in amministrazione straordinaria e ai gruppi di imprese di rilevante dimensione, con riferimento al luogo ove il debitore ha il centro degli interessi principali (art. 27);

-          è stato istituito presso il Ministero della Giustizia l’albo dei soggetti costituiti anche in forma associata o societaria, destinati a svolgere, su incarico del tribunale, le funzioni di curatore, commissario giudiziale o liquidatore, nelle procedure previste nel codice della crisi e dell’insolvenza (art. 356);

-          INPS e INAIL rilasciano, su richiesta del debitore o del Tribunale, un certificato unico con cui comunicano i crediti dagli stessi vantati nei confronti del debitore a titolo di contributi e premi assicurativi (art. 363);

-          in tema di spese, in caso di revoca della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, le spese procedurali e il compenso del curatore sono a carico del creditore quando ha chiesto con colpa l’apertura della procedura concorsuale, diversamente sono a carico del debitore –persona fisica (art. 366);

-          modifica degli assetti organizzativi dell’impresa (artt. 375 e 377);

-          responsabilità degli amministratori per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale (art. 378);

-          garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire (artt. da 385 a 388).

Ai quesiti di seguito riportati è stato risposto sulla base della normativa del  2012, in vigore sino all'agosto 2020. 

 

Questione 1

A quali società si può applicare la procedura fallimentare?

Non tutte le società possono fallire.

La normativa fallimentare, rinnovata da ultimo con il D. Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 (modificato ed integrato dal D, lgs. 169/2007), ha infatti chiarito che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento sia gli enti pubblici che gli imprenditori che dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

  1. aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza d fallimento un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 300.000;
  2. aver realizzato, negli ultimi tre esercizi, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro 200.000;
  3. avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro 500.000.


Gli imprenditori che dimostrino di rientrare contemporaneamente in tutti e tre i parametri indicati non possono, quindi, essere dichiarati falliti.

Conseguentemente potranno fallire solo gli imprenditori che avranno superato almeno uno di questi parametri.

 

Questione 2

Esistono dei limiti per richiedere il fallimento dell’imprenditore?

La nuova legge fallimentare ha introdotto un espresso limite relativo alla richiesta di fallimento dell’imprenditore. Secondo l’art. 15 del D.Lgs. 5/06 (corretto dal D. lgs. 169/2007)“non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad € 30.000”.

Tale norma determina un restringimento dell’area di fallibilità dell’imprenditore e pone a carico dei lavoratori importanti limitazioni per l’effettivo recupero dei diritti retributivi e contributivi dall’area del fallimento. Spesso, infatti, i crediti che i lavoratori vantano nei confronti del proprio datore di lavoro sono nettamente inferiori ad € 30.000 e questo nuovo limite determina l’obbligo per il singolo lavoratore di intraprendere diverse azioni rispetto dalla richiesta di fallimento, ossia azioni ordinarie di recupero crediti che sono molto più lunghe ed onerose.

 

Questione 3

In caso di fallimento del datore di lavoro, quali diritti ha il lavoratore in ordine alle ultime retribuzioni non corrisposte?

Con sentenza n. 1106 del 9/2/99, la Corte di cassazione aveva affermato importanti principi in ordine all'obbligo del Fondo di garanzia dell'Inps di pagare le ultime retribuzioni non corrisposte dal datore di lavoro dichiarato fallito; tali principi si fondavano sul principio, pure importante, che la normativa comunitaria prevale, a certe condizioni, su quella statale.

La questione nasceva dall'art. 2 D. Lgs. 80/82, che ha dato attuazione alla direttiva 80/987/CEE in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Per completezza, va osservato che la norma ora richiamata non era l'unica che, nel nostro ordinamento, prestasse tutela al lavoratore nel caso di fallimento del datore di lavoro. Oltre a questa, si può ricordare anche la L. 297/82 che garantisce al lavoratore, appunto nel caso di fallimento del datore di lavoro, il pagamento della somma dovuta a titolo di trattamento di fine rapporto a carico del Fondo di garanzia istituito presso l'Inps.

Tornando alla questione che qui interessa, il citato art. 2 D. Lgs. 80/82 ha disposto che il lavoratore può chiedere al Fondo di garanzia dell'Inps il pagamento delle ultime tre retribuzioni, che non siano state corrisposte dal datore di lavoro, sempre che le retribuzioni in questione rientrino nei dodici mesi precedenti la sentenza dichiarativa di fallimento del datore di lavoro.

La norma, così formulata, aveva dato adito a numerose perplessità. Infatti, può accadere che il rapporto di lavoro finisca, a causa della durata della procedura per la dichiarazione di fallimento, prima dei dodici mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento. In un caso come questo, il lavoratore - secondo la lettera della disposizione della legge nazionale - non avrebbe il diritto di rivolgersi al Fondo di garanzia per il pagamento dei suoi crediti di lavoro.

 Investita della questione, la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha stabilito, con sentenza 10/7/97, che la direttiva 80/987/CEE dispone nel senso che l'insolvenza del datore di lavoro, che fa operare la garanzia, si determina all'atto di apertura della procedura per la dichiarazione del fallimento, e non al successivo momento in cui il fallimento viene dichiarato, sebbene sia necessario attendere questa dichiarazione per ottenere la garanzia del pagamento a carico del Fondo.

Sulla base di questa pronuncia, la citata sentenza della Corte di cassazione ha ritenuto che la normativa comunitaria, così come interpretata dalla Corte di giustizia, e la normativa nazionale formano un complesso unitario di regole: alla norma attuativa nazionale non può attribuirsi contenuto contrastante con quello della norma comunitaria di cui costituisce attuazione, e quest'ultima deve essere letta secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia comunitaria.

Pertanto, a dispetto della lettera della norma nazionale, e in forza dei motivi sopra esposti, si deve ritenere che l'intervento del Fondo di garanzia dell'Inps, per il pagamento dei crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, debba operare in tutti i casi in cui tali crediti siano sorti nei dodici mesi antecedenti l'apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non nei dodici mesi antecedenti la sentenza che abbia dichiarato il fallimento del datore di lavoro.

Insomma, anche grazie alla sentenza di cui si sta parlando, si è aggiunto un altro tassello alla sia pur modesta tutela del lavoratore contro le ipotesi di insolvenza del datore di lavoro, distribuendo sulla collettività almeno alcuni dei danni che si verifichino in quei casi.


A dare conferma alle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza sono poi intervenuti tre successivi interventi normativi: il d. lgs 185/2005 (adottato in attuazione della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 2002/74/CE), il d. lgs. 5/2006 e il d. lgs. 169/2007 (questi ultimi di riforma della legge fallimentare).

A seguito di tali normative, il quadro delle condizioni di accesso al Fondo di Garanzia per le ultime tre mensilità di retribuzione è stato maggiormente chiarito, come risulta anche dalla Circolare Inps n. 74/2008 di riepilogo della situazione relativa all’intervento del Fondo stesso.

Pertanto, ad oggi, il lavoratore può rivolgersi ad esso per ottenere i crediti retributivi relativi agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro purché rientrino nei 12 mesi che precedono:

  1. la data della domanda diretta all’apertura della procedura concorsuale a carico della datore di lavoro, se il lavoratore ha cessato il proprio rapporto prima dell’apertura della procedura stessa. Si precisa che, qualora il lavoratore prima di tale data, abbia agito in giudizio per il soddisfacimento dei crediti per il quali chiede il pagamento del Fondo, il termine decorre dalla data di deposito in Tribunale del relativo ricorso;
  2. la data di deposito in Tribunale del ricorso per la tutela dei crediti di lavoro, nel caso in cui l’intervento del fondo avvenga a seguito di esecuzione individuale;
  3. la data del provvedimento di messa in liquidazione, di cessazione dell’esercizio provvisorio, di revoca dell’autorizzazione alla continuazione all’esercizio di impresa, per i lavoratori che dopo l’apertura di una procedura concorsuale abbiano effettivamente continuato a prestare attività lavorativa.


Qualora la cessazione del rapporto sia intervenuta durante la procedura concorsuale, invece, i 12 mesi decorrono dalla data di licenziamento o dimissioni del lavoratore.

 

Questione 4

In caso di fallimento del datore di lavoro, il rapporto di lavoro si risolve?

Il fallimento del datore di lavoro non comporta di per sé la risoluzione del rapporto di lavoro. In particolare, ai sensi dell’art. 2119 c.c., il fallimento dell’imprenditore (o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda) non costituisce giusta causa di licenziamento. Tuttavia, frequentemente il fallimento del datore di lavoro comporta una impossibilità di fatto della prosecuzione del rapporto di lavoro, tanto è vero che esso può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In quest’ottica deve essere letto l’art. 3 della L. 223/91 ai sensi del quale, qualora non sia possibile la continuazione, nemmeno in parte, dell’attività, è possibile la collocazione in mobilità o la apertura di una procedura di licenziamento collettivo per i lavoratori dipendenti dell’azienda dichiarata fallita. In buona sostanza, qualora a seguito del fallimento del datore di lavoro, l’attività aziendale non prosegua, il lavoratore potrà essere licenziato per giustificato motivo oggettivo con diritto alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso.

 

Questione 5

In caso di fallimento del datore di lavoro, il lavoratore come può tutelare i propri diritti?

Quando un datore di lavoro fallisce, frequentemente i suoi dipendenti si trovano ad essere creditori di una o più retribuzioni non corrisposte nonché, in caso di risoluzione del rapporto, delle spettanze di fine rapporto. In questa ipotesi, il primo passo che il lavoratore creditore deve compiere per salvaguardare i propri diritti è la presentazione al giudice fallimentare di un ricorso per l’ammissione al passivo ai sensi dell’art. 93 Legge Fallimentare. Con tale atto, il lavoratore rivendica tutti i crediti vantati nei confronti del fallito e il giudice fallimentare decide sulla sussistenza e sull’ammontare degli stessi (l’insieme delle domande di ammissione al passivo andrà a formare lo stato passivo del fallimento). Ovviamente, non tutti i crediti godono di uguale tutela, in particolare sono distinguibili essenzialmente due categorie di crediti: quelli muniti di privilegio e quelli non muniti di privilegio (chirografari). I crediti nascenti dal rapporto di lavoro appartengono alla prima categoria e, dunque, sono privilegiati rispetto ad altri. Durante la procedura fallimentare, accanto allo stato passivo, si andrà a formare (se possibile) uno stato attivo del fallimento (dato, essenzialmente, dalla vendita dei beni mobili e immobili di proprietà dell’impresa dichiarata fallita). Al termine delle operazioni succintamente spiegate il giudice fallimentare procede alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo. In buona sostanza, il ricavato del fallimento viene suddiviso fra i vari creditori con il seguente ordine:

1) pagamento delle spese, comprese quelle anticipate dall’erario, e dei debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa (se è stata autorizzata);

2) pagamento dei crediti ammessi con privilegio;

3) pagamento dei creditori chirografari in proporzione dell’ammontare dei loro crediti. E’ possibile, dunque, che il lavoratore venga interamente soddisfatto dei suoi crediti; tuttavia, spesso accade che egli lo sia solo parzialmente. In quest’ultimo caso, il lavoratore potrà presentare domanda, nei limiti già indicati, al Fondo di Garanzia istituito presso l’inps.