Dirigenti

Questione 1

Chi ha diritto alla qualifica di dirigente?

Una questione che viene sovente proposta nelle aule giudiziarie è quella del mancato riconoscimento della qualifica dirigenziale: un lavoratore, formalmente inquadrato al vertice della carriera impiegatizia, si sente sottostimasto rispetto all'importanza che egli attribuisce alle mansioni svolte e, soprattutto in occasione della cessazione del rapporto, egli promuove una causa contro il suo datore di lavoro, appunto per cercare di ottenere giudizialmente l'accertamento della natura dirigenziale del suo rapporto di lavoro e la condanna al pagamento delle differenze retributive.

La situazione di frustrazione che colpisce tale lavoratore è accentuata dal fatto che, spesso, il datore di lavoro attribuisce unilateralmente la qualifica dirigenziale anche a persone che, in senso stretto, non avrebbero diritto a quella qualifica. Bisogna però subito avvertire che, in assenza di un principio di parità di trattamento, un conto è se il datore di lavoro attribuisce, appunto unilateralmente, la qualifica dirigenziale; altro è riuscire ad ottenere giudizialmente il riconoscimento del diritto a quella qualifica.

A tale ultimo riguardo, bisogna subito avvertire che la giurisprudenza è piuttosto rigorosa. Con una sentenza (n. 11218 del 7/10/99), la Corte di cassazione ha preliminarmente definito la categoria dei dirigenti, peraltro desumendola da un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato. Infatti, è stato ritenuto che il dirigente è il lavoratore che si configuri come alter ego dell'imprenditore e che sia preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale, o di una branca o di un settore autonomo di essa. Inoltre, è necessario che, ai fini del riconoscimento della qualifica in questione, il lavoratore abbia in concreto una serie di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i conseguenti poteri di iniziativa e discrezionalità, gli consentano di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo dell'azienda e alla scelta dei mezzi produttivi. In altre parole il dirigente ha una responsabilità ad alto livello, che gli deriva appunto da quel potere di indirizzo di cui si è appena detto, ed è unicamente sottoposto all'osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro.

Sulla scorta di questa definizione, è stata tratta la conclusione che un dirigente non può essere sottoposto a vincoli di subordinazione gerarchica nei confronti di altri dirigenti. Più precisamente, è stato affermato che vi è incompatibilità tra la qualifica di dirigente e l'esercizio di mansioni con vincolo di dipendenza gerarchica, e ciò anche nei casi di aziende caratterizzate da una complessa organizzazione e da una pluralità di dirigenti con graduazione di compiti: per la sussistenza di funzioni dirigenziali, occorre che le mansioni, per il loro corretto svolgimento, siano coordinate con quelle degli altri dirigenti e non già subordinate ad altre.

D'altra parte la sentenza appena citata, se può precludere la strada a molti lavoratori che intendono ottenere la qualifica di dirigente, può tornare utile a quei lavoratori che, di fatto, hanno ottenuto la qualifica di dirigente, pur senza ricoprire un ruolo apicale nell'ambito della gerarchia aziendale. Infatti, costoro, in caso di licenziamento, potrebbero invocare il principio, enunciato dalla citata sentenza, della incompatibilità tra la qualifica dirigenziale e la subordinazione ad altri dirigenti, e ciò al fine di rivendicare, nei propri confronti, l'applicabilità delle norme di legge che tutelano i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo che, come è noto, non si applicano ai dirigenti. Oppure potrebbero lamentare una dequalificazione, con conseguente richiesta di risarcimento del danno professionale.

Va infine segnalato che la giurisprudenza più recente sostiene in maniera unanime che, ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, non occorre una formale investitura trasfusa in una procura speciale, essendo necessario e sufficiente che sia dimostrato l'espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate dalla preposizione ad uno o più servizi con ampia autonomia decisionale (in questo senso, Cass. 16/9/2015, n. 18165; Cass. 10/3/2010, n. 5809).

 

Questione 2

Quali sono i diritti di un dirigente di imprese commerciali?

In forza del contratto collettivo dei dirigenti commerciali, il dirigente ha diritto a una retribuzione mensile minima, che a decorrere dal 1° luglio 2013 è pari a € 3.890,00 lordi (l'istituto degli scatti di anzianità è invece stato abrogato a decorrere dal 1° luglio 2004).

Nei mesi di dicembre e di giugno di ogni anno il dirigente ha diritto a mensilità supplementari. Al dirigente spettano 4 giorni di permesso retribuito in sostituzione delle festività abolite, e 30 giorni di ferie (nel periodo di ferie non vanno computate le domeniche e le festività).

Per giustificato motivo, al dirigente deve essere concessa una aspettativa fino a 6 mesi, con facoltà del datore di lavoro di non corrispondere, in tutto o in parte, la retribuzione. In caso di malattia, il dirigente ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione, per 12 mesi; successivamente, può essere chiesta l'aspettativa di cui si è detto. In caso di infortunio per causa di servizio, il posto di lavoro deve essere conservato fino all'accertata guarigione, e la retribuzione deve essere corrisposta per non più di 30 mesi. Inoltre, il datore di lavoro deve stipulare una polizza contro gli infortuni e deve contribuire, insieme al lavoratore, a forme di previdenza e assistenza sanitaria integrative.

Il licenziamento e le dimissioni devono essere comunicate per iscritto. Mancando una giusta causa, chi recede deve rispettare i termini di preavviso (da 2 a 4 mesi, a seconda dell'anzianità, in caso di dimissioni; da 6 a 12 mesi in caso di licenziamento). Dal 1° ottobre 2011, in caso di licenziamento di dirigente che sia in possesso dei requisiti di legge per aver diritto alla pensione di vecchiaia, le mensilità di preavviso sono sostituite da un preavviso unico pari a trenta giorni, integrato dalle mensilità eventualmente necessarie per conseguire l’effettivo accesso al trattamento pensionistico.

Il licenziamento deve essere contestualmente motivato: in caso contrario, al dirigente spetta l'indennità supplementare (da un minimo corrispondente all'indennità sostitutiva del preavviso dovuto in caso di licenziamento ad un massimo pari ad una somma corrispondente a 18 mesi di preavviso). Come a tutti i dirigenti, anche a quelli che lavorano presso un’impresa commerciale, è ora esplicitamente applicabile la tutela reintegratoria (che, in estrema sintesi, prevede il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché l’integrale risarcimento del danno) prevista dal nuovo art. 18 S.L., qualora si tratti di un licenziamento discriminatorio (ai dirigenti non si applica, invece, il nuovo regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi introdotto dal d.lgs. 23/2015, nell’ambito del c.d. Jobs Act).

Dimettendosi per giusta causa, il dirigente ha diritto all'indennità sostitutiva del preavviso che gli sarebbe dovuta in caso di licenziamento, nonché ad un'indennità supplementare pari a 1/3 del preavviso. Sono previste alcune ipotesi esemplificative di dimissioni per giusta causa: la mancata accettazione del trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra; la mancata accettazione del trasferimento di proprietà dell'azienda; la dequalificazione; le dimissioni dovute a maternità o a matrimonio. Il dirigente ha l'onere di richiamare espressamente la causa delle dimissioni e di rassegnarle entro un termine perentoriamente stabilito.

 

Questione 3

Com’è disciplinato il licenziamento del dirigente?

In linea generale, il dirigente d'azienda non è tutelato dalla legislazione che limita il potere di licenziamento: il datore di lavoro che intenda licenziare un dirigente può omettere di addurre alcuna motivazione, nel qual caso il dirigente potrà rivendicare esclusivamente l'indennità sostitutiva del preavviso. Se invece il datore di lavoro adducesse una giusta causa di licenziamento, il dirigente licenziato perderebbe anche il diritto a tale indennità. In ogni caso, il licenziamento deve avvenire per iscritto: in questo senso dispone la L. 108/90 che ha modificato, anche sul punto, la previgente legislazione sui licenziamenti.

Tuttavia, la lacuna legislativa è, di regola, colmata dalla contrattazione collettiva, che impone al datore di lavoro l'obbligo di giustificare il licenziamento del dirigente. In ogni caso, la conseguenza del licenziamento ingiustificato non è la reintegrazione nel posto di lavoro, come avviene per gli altri lavoratori delle imprese medio - grandi, ma solo la corresponsione di una somma di denaro (cosiddetta indennità supplementare). Questa è l'ipotesi prevista per esempio dal contratto dei dirigenti industriali e dei dirigenti commerciali, che quantificano l'indennità tra un minimo e un massimo (per i dirigenti industriali, il minimo è pari al preavviso maggiorato di due mensilità, mentre il massimo corrisponde a ventidue mensilità di preavviso).

Nel caso in cui il dirigente intenda contestare il licenziamento, deve senz'altro ricorrere al tribunale del lavoro nel caso di licenziamento per pretesa giusta causa: in altre parole, il tribunale è sicuramente competente in ordine all'eventuale diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. Invece, con riguardo al diritto all'indennità supplementare, sono stati sollevati dubbi circa la competenza del tribunale, poiché i contratti collettivi sopra citati riservano ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato il compito di quantificare la somma di denaro dovuta per il caso di licenziamento ingiustificato. Conseguentemente, era stata affacciata l'ipotesi che il diritto alla indennità in questione potesse essere riconosciuta solo da tale collegio.

In realtà, ormai la questione non dovrebbe più costituire un problema, essendo ormai stata risolta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 1463 dell'11/2/87, hanno riconosciuto al tribunale del lavoro la competenza in ordine alla liquidazione dell'indennità in parola. L'orientamento delle S. U. è stato successivamente seguito dalla Sezione lavoro (v. per esempio Cass. 11/2/91 n. 1397). Pertanto, il dirigente che intenda rivendicare il proprio diritto alla indennità supplementare, può indifferentemente fare ricorso al tribunale, ovvero al collegio di conciliazione ed arbitrato.

Peraltro, la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro ha precisato che anche ai dirigenti deve essere applicata la disciplina relativa al licenziamento comminato per ragioni discriminatorie. Anche in questo caso, quindi, il giudice, dopo aver dichiarato nullo il licenziamento, deve ordinare al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannarlo al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione. Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo). Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

 

Questione 4

È legittimo licenziare un dirigente senza specificare i motivi del recesso nella lettera di licenziamento?

Quasi tutti i contratti collettivi che disciplinano il rapporto di lavoro dirigenziale, prevedono che il licenziamento del dirigente debba essere contestualmente motivato (con particolare riferimento al CCNL dei dirigenti di aziende del terziario, v. l'art. 39 c. 1).

La regola sopra indicata comporta, in primo luogo, la necessità che licenziamento e motivazione siano comunicati nello stesso momento, nonché l'irrilevanza di motivi che dovessero essere successivamente addotti e l'impossibilità di modificare i motivi originariamente indicati. In secondo luogo, la motivazione del licenziamento, anche non disciplinare, deve consistere in un fatto storico e non in un astratto richiamo a norme di legge o di contratto, e ciò all'evidente fine di consentire al dirigente di preparare una adeguata difesa giudiziaria. Ma anche questo non basta: non è sufficiente un richiamo generico ad un qualche fatto storico, che deve invece essere indicato in maniera specifica, sempre al fine di consentire al dirigente di apprezzare pienamente le ragioni del recesso e, dunque, di valutare l'opportunità di una causa.

Le conseguenze della omessa indicazione contestuale della motivazione è evidente: poiché il dirigente ha diritto, nel caso di licenziamento ingiustificato, alla indennità supplementare, e poiché in assenza della contestuale motivazione è impossibile verificare la sussistenza della giustificazione, ne deriva che il caso di cui si parla è del tutto equiparabile a quello del licenziamento ingiustificato, con conseguente diritto del dirigente alla indennità di cui si è detto. In un caso del genere, dunque, al dirigente non resta altro che scegliere se fare ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato, disciplinato dal CCNL, o se adire l'autorità giudiziaria.

 

Questione 5

Quali sono i diritti di un dirigente licenziato a seguito dello smembramento del suo ufficio e della conseguente soppressione della mansione?

Il contratto dei dirigenti di aziende industriali disciplina il licenziamento intimato da una impresa in stato di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione ovvero crisi aziendale riconosciute con decreto del ministro del lavoro. Più precisamente, l'accordo 27/4/95 (e, ancor prima, gli accordi 13/4/81 e 16/5/85) dispone che se il licenziamento dipende da una delle situazioni sopra indicate, il dirigente ha diritto alla indennità supplementare in misura pari al preavviso.

Proprio l'accordo da ultimo citato è stato utilizzato dalla sentenza del Tribunale di Milano del 26/11/94 per risolvere il caso del licenziamento del dirigente per soppressione del posto di lavoro. Più precisamente, il Tribunale è partito dal presupposto che il contratto collettivo non specifica quando il licenziamento del dirigente possa dirsi giustificato; conseguentemente, il giudice deve interpretare la clausola contrattuale facendo innanzi tutto riferimento al complessivo contesto contrattuale. In questa prospettiva, è di primaria importanza l'accordo relativo al licenziamento da parte di aziende in crisi sopra citato. Infatti, se le parti collettive hanno attribuito il diritto alla indennità supplementare, sia pure nella misura minima sopra indicata, al caso in cui il licenziamento sia dovuto a motivi non solo seri, ma addirittura accertati tramite un provvedimento amministrativo, a maggior ragione tale diritto deve essere riconosciuto allorquando il licenziamento, pur dovuto a motivi non pretestuosi né capricciosi, dipenda da una scelta discrezionale del datore di lavoro che, per motivi insindacabili ma non necessitati, si orienti verso una diversa organizzazione del lavoro. Conseguentemente, il dirigente licenziato avrà diritto, nel caso di cui si parla, oltre che al preavviso, anche alla indennità supplementare, nella misura minima contrattualmente prevista.

Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione, secondo cui ogni licenziamento di dirigente motivato con la soppressione del posto di lavoro dà diritto all’indennità supplementare di cui al relativo contratto collettivo.

La questione riguardava un dirigente licenziato per crisi aziendale. Il Tribunale di Bergamo aveva però rilevato che, in realtà, il licenziamento era imputabile a un mero processo di riorganizzazione e ristrutturazione, che aveva determinato la soppressione del posto di lavoro del dirigente e che non aveva nulla a che vedere con ipotesi di crisi. Conseguentemente, il Tribunale aveva ritenuto che l’art. 19 CCNL dirigenti industria (che prevede la corresponsione dell’indennità supplementare in caso di licenziamento ingiustificato del dirigente), interpretato in base a un equo contemperamento degli interessi contrapposti, escludesse dall’area del licenziamento giustificato quello determinato da scelte organizzative che non fossero necessitate da ragioni attinenti a una oggettiva crisi aziendale. In altre parole, il Tribunale aveva ritenuto che l’indennità di cui alla citata norma contrattuale non può essere confinata solo nell’ambito della tutela della dignità personale del dirigente, per reprimere ipotesi di licenziamenti offensivi o discriminatori; al contrario, la norma deve essere estesa alle ipotesi di ridimensionamento o ristrutturazione aziendale determinate da mere opportunità economiche che, pur essendo in sé legittime, comunque giustificano il ristoro del danno patito dal dirigente licenziato.

La Corte di cassazione (sentenza n.9896/98) ha confermato tale sentenza, partendo dal principio pacifico per cui la tutela legale contro i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo è inapplicabile ai dirigenti, se non per il caso di licenziamento discriminatorio. Piuttosto, osserva la Corte, il dirigente dispone di una tutela convenzionale, disposta dal contratto collettivo, che prevede – come già si diceva – la corresponsione di una indennità supplementare per il caso di licenziamento ingiustificato.

Ora, secondo la Corte, che sul punto segue la giurisprudenza pacifica, la nozione di licenziamento giustificato non corrisponde a quella di licenziamento sorretto da un giustificato motivo. Piuttosto, la giustificatezza prevista dal contratto riguarda ogni vicenda o comportamento del dirigente oggettivamente idonei a incidere irreversibilmente sulla fiducia del datore di lavoro. Insomma, secondo la Corte, la giustificatezza del licenziamento dipende dalla ragionevolezza e dalla serietà del motivo del recesso, da accertarsi secondo un equo contemperamento dei contrapposti interessi.

Secondo la Corte, il Tribunale si era correttamente uniformato ai principi sopra enunciati: infatti, correttamente era stato distinto tra recesso per crisi aziendale e recesso per altri motivi oggettivi. In questo modo, si perviene ad un equo bilanciamento della libertà di licenziare con la correlativa esigenza di compensare il disagio del dirigente licenziato. La Corte ha anche osservato che, per questa via, si risponde non solo a criteri di equità, ma anche di corretta interpretazione della volontà delle parti che, sia pur successivamente ai fatti di causa, mediante l’accordo interconfederale 27/4/95, hanno previsto, per il caso di licenziamento per motivo oggettivo del dirigente, il diritto del lavoratore a una indennità supplementare.

 

Questione 6

Quali sono i diritti del dirigente trasferito ad una diversa sede di lavoro?

Il trasferimento del dirigente soggiace alla ordinaria disciplina dei trasferimenti, regolata dall'art. 2103 c.c.. Tale norma subordina la legittimità del trasferimento all'esistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che, per giurisprudenza costante, devono sussistere sia nella sede di provenienza che in quella di destinazione.

Tuttavia, l'art. 14 del contratto dei dirigenti industriali integra la disciplina legislativa con norme volte a tutelare il dirigente. In primo luogo, il trasferimento deve essere comunicato per iscritto, con un preavviso di almeno 3 mesi, ovvero di 4 mesi se il dirigente ha familiari conviventi e a carico. Qualora il preavviso non possa essere rispettato per motivi di particolare urgenza, il dirigente deve essere considerato in trasferta fino al raggiungimento dei termini di preavviso.

Inoltre, il dirigente ha diritto al rimborso delle spese sostenute, a seguito del trasferimento, per sé e per la famiglia, nonché - per un periodo da concordarsi e comunque non inferiore a due anni - della maggior spesa effettivamente sostenuta per l'alloggio dello stesso tipo di quello occupato nella sede di origine. Anzi, il datore di lavoro deve attivarsi per agevolare il reperimento di un alloggio nella sede di destinazione.

Inoltre, il dirigente ha diritto ad una indennità, pari a 3,5 o a 2,5 mensilità, a seconda che il dirigente abbia o non abbia carichi di famiglia, peraltro non computabile agli effetti del trattamento di fine rapporto. Infine, qualora entro 5 anni dal trasferimento dovesse cessare il rapporto per licenziamento o per morte, il datore di lavoro deve rimborsare le spese sostenute dal dirigente e/o dalla sua famiglia per il ritorno alla sede di origine. In ogni caso, se non è diversamente convenuto, il dirigente non può essere trasferito se abbia compiuto il 55° anno di età, se uomo, o il 50° anno di età, se donna.

Il dirigente che non accetti il trasferimento può, secondo le regole generali, ricorrere al giudice per far accertare la mancanza delle ragioni giustificatrici del provvedimento.

Si precisa che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 183/2010 cd. Collegato lavoro e successive modifiche, deve essere preventivamente effettuata un’impugnazione del trasferimento entro 60 giorni dalla ricezione della relativa comunicazione. Successivamente, il dirigente potrà rivolgersi al giudice, depositando il ricorso entro 180 giorni dall’avvenuta impugnazione.

Inoltre, secondo quanto disposto dal citato art. 14, il dirigente può recedere dal rapporto entro 60 giorni dalla comunicazione del trasferimento, motivando le proprie dimissioni con la mancata accettazione dello stesso: in questo caso, il dirigente ha diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, all'indennità sostitutiva del preavviso, nonché ad una indennità supplementare pari ad 1/3 del preavviso. In ogni caso, il dirigente che venga licenziato per mancata accettazione del trasferimento ha diritto, oltre al trattamento di fine rapporto, all'indennità sostitutiva del preavviso.

 

Questione 7

E' legittimo inviare un dirigente in trasferta?

La trasferta deve essere distinta dal trasferimento, disciplinato dall'art. 2103 c.c.. Più precisamente, la trasferta presuppone il sopravvenire di esigenze transitorie, non previste al momento dell'assunzione, che non incontrano limitazioni da parte della legge: pertanto, il lavoratore inviato in trasferta non ha spunti per contestare, nel merito, il provvedimento.

In altre parole, nel caso in cui il datore di lavoro modificasse il luogo di esecuzione della prestazione di lavoro, è necessario verificare se la modifica sia stabile e definitiva, nel qual caso ricorrerebbe l'ipotesi del trasferimento, ovvero temporanea, nel qual caso si configurerebbe la trasferta : naturalmente, il provvedimento che si qualificasse come "trasferta temporanea", ma senza una precisa data di rientro, o con una previsione di durata molto lunga, sarebbe qualificabile alla stregua di un trasferimento.

La trasferta è disciplinata dal contratto collettivo che, come normalmente accade, prevede essenzialmente il diritto del lavoratore al rimborso delle spese. Più precisamente, l'art. 17 del contratto collettivo dei dirigenti commerciali (ma analogamente è previsto, per esempio, dall'art. 10 del CCNL dirigenti industriali) dispone che il lavoratore in trasferta ha diritto al rimborso delle spese di viaggio, di vitto e alloggio, nonché di ogni spesa che sia stata sostenuta in esecuzione del mandato o nell'interesse dell'azienda. Il rimborso del vitto e dell'alloggio può avvenire a piè di lista, o per equivalente, in una misura da convenire tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il dirigente in trasferta, qualora utilizzasse l'autovettura privata, avrebbe diritto - sempre che l'uso dell'auto privata sia stato autorizzato dal datore di lavoro - al rimborso chilometrico secondo le tariffe ACI. Infine, è previsto il rimborso delle piccole spese non documentabili, senza peraltro che il contratto offra, al riguardo, alcun parametro.

 

Questione 8

Quali sono i diritti del dirigente nel caso in cui la proprietà dell'azienda venga trasferita da un soggetto ad un altro?

L'art. 13 c. 2 del contratto di lavoro dei dirigenti di imprese industriali riguarda l'ipotesi del "cambiamento" della proprietà dell'azienda. Poiché vi è un esplicito riferimento alle "particolari caratteristiche del rapporto dirigenziale", si deve intendere che la norma si applichi a tutti i casi in cui il cambiamento dell'assetto proprietario sia tale da ripercuotersi sul particolare vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro al dirigente.

In altre parole, la norma di cui si parla non si riferisce solo ai casi di trasferimento d'azienda, disciplinato dall'art. 2112 c.c. Pertanto, oltre ai casi (per esempio) di concentrazione, fusione, scorporo, si deve ritenere che l'art. 13 del contratto si applichi anche ai casi di cessione di quote di proprietà dell'azienda, esclusi dall'ambito di applicazione dell'art. 2112 c.c.

Naturalmente, non deve trattarsi della cessione di una qualunque quota di proprietà aziendale. Poiché, come si diceva, la norma si riferisce alle peculiarità del rapporto dirigenziale, è necessario che la quota trasferita sia di una consistenza tale da incidere sul già citato rapporto fiduciario : in altre parole, deve trattarsi di un mutamento che possa legittimare l'affermazione che il datore di lavoro che aveva assunto il dirigente è cambiato, in modo tale che quest'ultimo possa non avere interesse a proseguire il rapporto di lavoro con l'acquirente.

Nei casi sopra indicati, dunque, il dirigente ha la facoltà di rassegnare le proprie dimissioni, senza obbligo di preavviso e con il diritto di percepire un trattamento pari ad un terzo dell'indennità sostitutiva del preavviso spettante nel caso di licenziamento. Tuttavia, per ottenere l'emolumento ora indicato, le dimissioni devono essere rassegnate nel termine di 180 giorni: il termine è stato evidentemente introdotto al fine di garantire che le dimissioni siano effettivamente causate dal descritto cambiamento. Bisogna sottolineare che il termine decorre dalla data legale dell'avvenuto cambiamento e non dal momento in cui il dirigente ne sia venuto a conoscenza.

Conclusivamente, dunque, in caso di trasferimento di proprietà dell'azienda, il dirigente, se non vuole proseguire il rapporto con il nuovo datore di lavoro, deve inviare, nel termine indicato, una raccomandata con ricevuta di ritorno, per comunicare le proprie dimissioni, specificando che le stesse sono motivate dall'avvenuto cambiamento dell'assetto proprietario, rivendicando altresì l'emolumento previsto dall'art. 13 c. 2 CCNL DAI.

 

Questione 9

Il quadro che subentri nelle mansioni di un dirigente, andato in pensione, ha diritto alla superiore qualifica?

Secondo la giurisprudenza prevalente la dipendenza gerarchica da altro dirigente non è, di per sé, un impedimento al riconoscimento della qualifica dirigenziale, potendo sussistere una struttura "piramidale" anche nell'ambito dei vertici aziendali (così si è espressa, ad esempio, la sentenza della Cassazione n. 1899/94). Quanto alle mansioni, in base all'art. 2103 del codice civile il lavoratore che abbia svolto per almeno 6 mesi mansioni superiori (purché ciò non avvenga in sostituzione di un collega avente diritto alla conservazione del posto, ad esempio, perché malato) ha diritto all'assegnazione, in via definitiva, a tali mansioni, nonché al trattamento corrispondente. Peraltro, il fatto che il lavoratore sostituito avesse la qualifica dirigenziale non è di per sé sufficiente ad affermare che le mansioni svolte sono di natura, appunto, dirigenziale; tale qualifica potrebbe, in teoria, essergli stata attribuita, in base ad una scelta discrezionale del datore di lavoro.

Dunque, importanza determinante assumere l'esame delle mansioni che il lavoratore si trova, di fatto, a svolgere. In particolare, ciò che caratterizza la figura del dirigente, e che lo distingue dall'impiegato con funzioni direttive, è l'ampiezza dei poteri decisionali a lui in concreto affidati, nonché la possibilità di esercitare gli stessi con significativa discrezionalità, nell'ambito dell'intera impresa o di un settore rilevante della stessa. Al riguardo, assumono particolare importanza anche le previsioni dei contratti di categoria. Esistono, infatti, specifici contratti collettivi dei dirigenti in cui vengono individuate alcune delle caratteristiche più significative di tale figura professionale o, addirittura, una serie di ruoli professionali (direttore, vicedirettore, institore, ecc.) al cui svolgimento si accompagna il diritto al riconoscimento del ruolo dirigenziale. Per esempio, il contratto dei dirigenti del commercio prevede che lo stesso si applichi a coloro che "rispondendo direttamente all'imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive, a tutte l'impresa o ad una sua parte autonoma".

 

Questione 10

Si può parlare di demansionamento nel caso in cui il dirigente venga affiancato da un altro, al quale siano affidate una parte delle sue mansioni originarie?

Il diritto del datore di lavoro di modificare le mansioni dei propri dipendenti incontra i limiti della garanzia del livello retributivo raggiunto e della riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento di quelle precedentemente svolte, al fine di salvaguardare il livello professionale e le conseguenti prospettive di miglioramento.

A tal proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la dequalificazione qualora il ridimensionamento della complessiva posizione lavorativa del dirigente "dimezzato" determini una compressione del suo spazio professionale e la divisione dei compiti, prima svolti in via esclusiva, nel senso di cogestione da parte dei due dirigenti. La Corte di Cassazione ha rilevato che in casi del genere non è rilevante in sé l'aspetto quantitativo ai fini del problema della dequalificazione, ma deve essere confrontata la posizione del dirigente prima o dopo l'affiancamento, tenendo presente l'elevata posizione professionale già rivestita, e valutando se quelle mansioni, proprio per il rilievo che avevano, potessero essere svolte con altri, senza che la loro qualità, la loro valenza professionale, avesse a soffrirne. Proprio l'elevatezza delle mansioni, secondo la Corte, non consentiva che le stesse fossero suscettibili di esercizio congiunto con altri, senza che venissero snaturate nella loro qualità.

È proprio la posizione elevata del dirigente che fa apparire come l'eventuale svolgimento delle relative mansioni, in un momento successivo a opera di due persone, abbassi il livello professionale di chi in precedenza le aveva svolte da solo, in via esclusiva. In tal modo la nuova situazione viene ad essere dequalificante per il dirigente. Una volta accertata la dequalificazione, il diritto al risarcimento dei danni diviene conseguenziale e resta solo un problema di quantificazione dei danni stessi (in molti casi, a seconda dell'entità del danno patito, il risarcimento è stato commisurato alla retribuzione percepita o a una parte della stessa, per tutto il periodo in cui si è consumato il fatto illecito).

Ha ancora aggiunto la Corte che la lesione del bene giuridico garantito dall'art. 2103 c.c. prescinde anche da una specifica volontà dal datore di lavoro di declassare il lavoratore.

 

Questione 11

I dirigenti hanno diritto alla retribuzione per il lavoro straordinario?

Il lavoro straordinario è quello che viene effettuato dopo il normale orario di lavoro (a tale riguardo, va precisato che, attualmente, la legge prevede il limite delle otto ore giornaliere e delle quaranta ore settimanali, anche se i contratti collettivi normalmente stabiliscono limiti più bassi). Il lavoratore, in relazione al lavoro straordinario, ha diritto ad un compenso maggiorato rispetto alla retribuzione ordinaria. Di regola, la maggiorazione è quantificata dal contratto collettivo, che peraltro può legittimamente prevedere che, in alternativa, lo straordinario sia remunerato a forfait (il lavoratore percepisce una somma fissa mensile, destinata a remunerare il lavoro straordinario a prescindere dalla quantità di straordinario effettivamente prestato) o mediante i riposi compensativi. Naturalmente, per vantare il diritto al descritto trattamento economico, lo straordinario deve essere ordinato dal datore di lavoro, ovvero deve essere da questo autorizzato, anche tacitamente (è quindi sufficiente che il datore di lavoro sapesse che il lavoratore svolgeva lavoro straordinario e non si sia opposto).

Dalle regole sopra brevemente indicate è escluso il personale direttivo, cui non si applicano i limiti d’orario previsti dalla legge e, eventualmente, dal contratto collettivo. La nozione di personale direttivo comprende, ma non esaurisce la categoria dei dirigenti: infatti, i lavoratori di cui si parla sono tutti coloro i quali hanno la possibilità di alternare liberamente il lavoro ed il riposo, ovviamente fatto salvo l’obbligo lavorativo quotidiano (si tratta, per esempio, dei capi ufficio e dei capi reparto).

In altre parole, i dirigenti (in quanto facenti parte della più ampia categoria del personale direttivo) non hanno un orario prestabilito di lavoro; conseguentemente, nei loro confronti non si può parlare di lavoro straordinario e, dunque, neppure di diritto al compenso per il lavoro straordinario. Questa situazione, come è evidente, può peraltro portare a conseguenze aberranti, almeno nel caso in cui il dirigente lavori per una quantità di tempo eccessiva. Per questo, la giurisprudenza ha introdotto il principio secondo cui il dirigente ha diritto ad un compenso, che il giudice dovrà quantificare secondo equità, nel caso in cui la sua prestazione di lavoro si protragga per un periodo di tempo così lungo da superare i limiti della ragionevolezza. In altre parole, il diritto al compenso aggiuntivo spetta nel caso in cui l’orario di lavoro del dirigente sia stato tale da rendere la prestazione lavorativa particolarmente usurante, e complessivamente più gravosa di quella prestata dal personale direttivo.

 

Questione 12

Nel caso di licenziamento disciplinare, il dirigente ha diritto alla procedura prevista dall’art. 7 S.L.?

In caso di licenziamento disciplinare, l’art. 7 S.L. prescrive una articolata procedura, che il datore di lavoro deve seguire pena l’illegittimità del licenziamento: il datore di lavoro deve preliminarmente contestare l’addebito, con conseguente facoltà del lavoratore di far pervenire, nei successivi 5 giorni, le proprie giustificazioni. Solo allo spirare di detto termine, e sempre che si ritenga di non accogliere le giustificazioni, può essere inflitta la sanzione del licenziamento.

La procedura sopra descritta è pacificamente applicabile nei confronti di operai, impiegati e quadri. Al contrario, nei confronti dei dirigenti, la giurisprudenza della S.C. ha espresso orientamenti difformi, ora affermando, ora negando la necessità di esperirla. La questione sembrava definitivamente risolta con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 6041 del 29/5/95, che aveva escluso l’applicabilità dell’art. 7 S.L. nei confronti del dirigente: ciò voleva dire che il dirigente poteva essere licenziato per motivi disciplinari anche senza l’attuazione della procedura garantista imposta dalla norma citata.

La decisione in parola, tuttavia, ha suscitato da subito forti perplessità, che hanno portato a un nuovo conflitto di legittimità. Dodici anni dopo,  la Cassazione a Sezioni Unite è quindi intervenuta nuovamente sul tema, e con la sentenza n. 7880 del 2007 ha ribaltato il precedente indirizzo, affermando l’opposto principio di diritto secondo cui “le garanzie procedimentali dettate dalla l. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente — a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell'impresa — sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o in senso lato colpevole), sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso”. Con qualche rara eccezione, la giurisprudenza successiva si è uniformata a tale statuizione.

 

Questione 13

Come è disciplinata l’assunzione a termine del dirigente?

L’art. 29, comma 2, lettera a), del D.Lgs. 81/2015 – uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act – prevede che i contratti di lavoro a tempo determinato con i dirigenti non possono avere durata superiore a 5 anni; la medesima disposizione riconosce al dirigente il diritto di recedere dal contratto stesso una volta che siano trascorsi 3 anni e a condizione che sia rispettato il preavviso stabilito dalla contrattazione collettiva. Ciò rappresenta una norma di favore per il dirigente: infatti, nel caso di rapporto a termine, la regola generale è che chi recede dal rapporto prima dello scadere del termine deve corrispondere all'altra parte le retribuzioni teoricamente dovute da allora fino alla naturale scadenza del contratto.


Questa regola generale vale anche per il lavoratore; tuttavia, nel caso di cui si sta parlando, e come si è visto, il risarcimento del danno è limitato al periodo di preavviso.

L’art. 29 stabilisce inoltre che i rapporti a termine con i dirigenti sono esclusi dal campo di applicazione delle norme contenute nel capo III del D.Lgs. 81/2015; diversamente, la normativa pre-riforma (contenuta nel comma 4 dell’art. 10 D.Lgs. 368/2001) prevedeva l’applicazione ai dirigenti assunti a termine quanto meno delle norme relative al principio di non discriminazione e ai criteri di computo.
A tal proposito, va tuttavia osservato che, in tema di criteri di computo, l’art. 27 D.Lgs. 81/2015 ricomprende espressamente i dirigenti assunti a termine.
Quanto, poi, al principio di non discriminazione, sebbene l’art. 25 del D.Lgs. 81/2015 non faccia espresso riferimento ai dirigenti, può tuttavia ritenersi che la necessità di rispettare un tale principio possa in ogni caso ricavarsi dai principi comuni.

 

Questione 14

In cosa può consistere il mutamento della posizione professionale del dirigente, che comporta il diritto dello stesso a dimettersi per giusta causa?

La sentenza n. 6168 pronunciata dalla Corte di cassazione il 19/6/99 fornisce un esempio al riguardo: tra un dirigente e la presidenza di una società era stato interposto un gruppo di consulenti da cui quindi il dirigente finiva per dipendere, dopo che per anni il dirigente era stato alle dirette dipendenze del Presidente della società.

Questa modifica, secondo il dirigente, aveva comportato una lesione della sua professionalità; pertanto, invocando l'art. 23 del CCNL dei dirigenti commerciali, si era dimesso per giusta causa. Questa norma citata stabilisce la facoltà del dirigente di dimettersi, con diritto all'indennità sostitutiva del preavviso prevista per il caso di licenziamento, nel caso in cui si verifichi un mutamento delle mansioni, sostanzialmente incidente sulla sua posizione, e sempre che le dimissioni vengano rassegnate nel termine di sessanta giorni. La stessa regola è contemplata dall'art. 16 CCNL dei dirigenti industriali.

Tuttavia, per ottenere il pagamento del dovuto, il dirigente si era dovuto rivolgere al giudice del lavoro. La domanda del lavoratore è stata accolta dal Pretore e, in grado d'appello, dal Tribunale. Con la sentenza prima citata, la Corte di cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito, affermando tra l'altro che la frapposizione tra il dirigente e la presidenza della società di alcuni consulenti configura un palese decadimento della posizione professionale del dirigente. Pertanto, a ragione il dirigente aveva invocato la norma contrattuale sopra indicata, con conseguente diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.

La sentenza è importante perché sancisce il principio che la posizione professionale del dirigente si qualifica non solo per le mansioni di fatto svolte dal lavoratore, ma anche per il suo collocamento nella scala gerarchica della impresa per cui egli lavora. Pertanto, nel caso di un mutamento deteriore della posizione del dirigente nell'organigramma aziendale, si deve ritenere realizzata l'ipotesi contemplata dall'art. 23 CCNL dirigenti commerciali e dall'art. 16 CCNL dirigenti industriali, e ciò quand'anche la mansione del dirigente sia rimasta, in sé, invariata.

Tuttavia, al di là del rilievo della sentenza di cui si parla, resta da riflettere sull'efficacia del rimedio offerto dalla contrattazione collettiva per l'ipotesi del mutamento di posizione del dirigente. Da un lato, non si può trascurare che, nel rapporto di lavoro dirigenziale, l'indennità sostitutiva del preavviso è elevata: infatti, per i dirigenti del commercio tale indennità varia da un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità, a seconda dell'anzianità del dirigente; per i dirigenti industriali, l'indennità varia, sempre in rapporto all'anzianità, da un minimo di 8 ad un massimo di 12 mensilità. Tuttavia, per quanto elevata sia la somma di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al dirigente nel caso di mutamento della sua posizione, resta il fatto che il lavoratore ha perso il suo posto di lavoro: evidentemente, si tratta di un sacrificio che difficilmente può essere compensato con una somma di denaro, per quanto elevata. In buona sostanza, il rimedio offerto dalla contrattazione collettiva non appare del tutto congruo, mentre invece sarebbe preferibile che, in casi come quello di cui si parla, fosse prevista una sanzione a carico del datore di lavoro, ma con la conservazione del posto per il lavoratore che ha subito il pregiudizio.

 

Questione 15

Il dirigente è tutelato dal licenziamento cd. licenziamento discriminatorio?

La legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro ha chiarito, una volta per tutte, che la disciplina relativa al licenziamento intimato per ragioni discriminatorie (ossia determinato da ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla partecipazione all’attività sindacale, tra cui è compresa la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, nonché da ragioni razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali del dipendente), deve essere applicata anche ai dirigenti.

Anche in questo caso, quindi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, deve ordinare al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannarlo al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione. Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo). Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Per la tutela accordata e ora sintetizzata, risulta quindi particolarmente rilevante verificare che, dietro al licenziamento intimato al dirigente, non si nascondano motivi discriminatori.

Sul punto, era peraltro già intervenuta la Corte di Cassazione che, in relazione alla previgente disciplina prevista dall’art. 18 S.L., aveva già ipotizzato la medesima conclusione ora definitivamente chiarita dalla legge. Il caso riguardava un dirigente che aveva impugnato il licenziamento che gli era stato intimato, sostenendo che, essendo stato inflitto come ritorsione a sue legittime rivendicazioni, il licenziamento era nullo, con conseguente obbligo del datore di lavoro di reintegrarlo in servizio. La legge infatti prevede la reintegrazione del lavoratore colpito da un licenziamento discriminatorio, estendendo tale tutela anche ai lavoratori con qualifica di dirigente (che, come è noto, di regola sono esclusi dalla tutela offerta dalla legge contro i licenziamenti ingiustificati).

L'impugnazione del licenziamento andava incontro ad alterne vicende giudiziarie. La domanda era stata accolta dal Pretore, che aveva accertato la natura ritorsiva del licenziamento, conseguentemente ordinando la reintegrazione in servizio del dirigente, ma era stata rigettata dal Tribunale. Quest'ultimo, in particolare, aveva sostenuto che è pur vero che la legge prevede esplicitamente la reintegrazione del lavoratore licenziato per motivi discriminatori; è anche vero che l'art. 3 L.108/90 si applica anche ai dirigenti; tuttavia, il Tribunale aveva concluso che, nel caso di specie, non ricorreva la fattispecie prevista da quella norma. Secondo il Tribunale, infatti, la norma prevede la nullità dei licenziamenti determinati da ragione di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali o a scioperi. Poiché, dunque, nel caso di specie il licenziamento era sì discriminatorio in senso lato, ma non era discriminatorio nel senso indicato, ne conseguiva l'inapplicabilità della reintegrazione.

La pronuncia del Tribunale è stata ribaltata dalla sentenza n. 4543, pronunciata dalla Suprema Corte in data 6/5/99. E' stato infatti osservato che la previsione di nullità per il licenziamento discriminatorio deve essere riferita anche a fattispecie di licenziamenti che, pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate, siano determinati in maniera esclusiva da un illecito motivo di ritorsione o rappresaglia, costituendo dunque l'ingiusta ed arbitraria reazione a fronte di un comportamento legittimo del lavoratore (che, per esempio, aveva fatto valere rivendicazioni anche a mezzo di iniziative giudiziarie) ed inerente a diritti derivantigli dal rapporto di lavoro, o a questo comunque connessi.

L'interpretazione estensiva dell'art. 3 L. 108/90, afferma la Corte, è giustificata dal rilievo che le varie ipotesi di licenziamento discriminatorio contemplate costituiscono una specificazione della più ampia fattispecie del licenziamento viziato da motivo illecito, riconducibile alla più generale ipotesi dell'atto unilaterale nullo per motivo illecito. In tale più ampia e generale previsione è certamente da ricomprendere il licenziamento intimato per ritorsione e rappresaglia, poiché esso implica una illecita discriminazione, intesa in senso lato, del lavoratore licenziato rispetto agli altri dipendenti.

 

Questione 16

Il dirigente che non sia apicale ha diritto alla reintegrazione, nel caso di licenziamento privo di giustificazione?

La Corte di Cassazione ha aggiunto un altro importante tassello alla questione del licenziamento del dirigente (sentenza n.12571 del 12.11.99). Nel caso specifico, la fattispecie riguardava il settore del credito, dove è prevista, nel caso di licenziamento senza giustificazione, la reintegrazione del dirigente che non abbia un ruolo apicale, ovvero che non faccia parte della direzione generale o centrale. Come si vede, si tratta di una normativa del tutto particolare, che introduce un regime di maggior favore per i dirigenti del credito non solo rispetto alla legge (che riconosce la facoltà di licenziare il dirigente anche senza alcun motivo), ma anche nei confronti degli altri contratti collettivi del personale dirigenziale, che di solito prevedono, per il caso di licenziamento ingiustificato, solo un risarcimento in denaro, per quanto cospicuo (c.d. indennità supplementare). Tuttavia, i principi enunciati dalla suprema Corte sembrano prescindere dalla fattispecie concreta e sembrano utilizzabili nei confronti di ogni dirigente, a prescindere dal tipo di contratto applicabile.

La Corte in sostanza distingue ben chiaramente le figure del dirigente apicale (individuato in colui il quale si trovi in una posizione tale da poter avere un potere decisionale e rappresentativo idoneo ad influenzare l’andamento e la vita dell’azienda o del settore cui è preposto, tanto al suo interno quanto all’esterno, al punto da costituire un vero e proprio alter ego dell’imprenditore) e quella di tutti gli altri dirigenti (definiti come pseudo-dirigenti o dirigenti meramente convenzionali). Solo i primi, dice la Cassazione, sono licenziabili ad nutum; tutti gli altri invece godono delle medesime garanzie di stabilità riconosciute dalla legge agli altri lavoratori.

Infatti, precisa la Corte, gli altri dirigenti (proprio perché sono tali convenzionalmente, ma senza in realtà svolgere un ruolo dirigenziale strettamente inteso) fruiscono della tutela contro i licenziamenti ingiustificati che è riconosciuta dalla legge per gli altri lavoratori non dirigenti. Ai dirigenti non apicali quindi deve essere applicato non solo l'art. 7 S.L. (che prevede una particolare procedura per la irrogazione di sanzioni disciplinari), ma anche la L. 108/90 (che impone il principio del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo) e l'art. 18 S.L. (che dispone, nei confronti dei datori di lavoro che abbiano un certo requisito dimensionale, l'obbligo di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato).

In buona sostanza, la Corte ha ritenuto che il licenziamento senza giustificazione possa essere inflitto solo nei confronti del dirigente in posizione verticistica che, nell'ambito del complesso aziendale, sia caratterizzato dall'ampiezza del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego dell'imprenditore, in quanto preposto all'intera azienda o a un ramo o servizio di particolare rilevanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l'andamento e le scelte dell'attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi. E solo nei confronti di costoro sarà applicabile la tutela convenzionale prevista dalla contrattazione collettiva, attraverso il pagamento eventuale dell'indennità supplementare. Per tutti coloro che non siano ai vertici aziendali, nel senso descritto dalla Cassazione, sarà invece possibile, qualora la motivazione del licenziamento non sia ritenuta sussistente o adeguata, richiedere al Giudice l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro.

Peraltro, la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro ha precisato che anche ai dirigenti deve essere applicata la disciplina relativa al licenziamento comminato per ragioni discriminatorie. Anche in questo caso, quindi, il giudice, dopo aver dichiarato nullo il licenziamento, deve ordinare al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condannarlo al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione. Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo). Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.