Danno biologico

Questione n. 1

Cos’è il danno biologico?

 

La giurisprudenza ha riconosciuto che qualunque danno alla salute comporta anche un danno in termini di ostacoli alla normale vita di relazione che, conseguentemente, risulta menomata. Questo è, in sintesi, il concetto del danno biologico, il cui risarcimento è ormai pacificamente ammesso.

La nozione del danno biologico trova, nel rapporto di lavoro subordinato, importanti applicazioni: infatti, l'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore. In altre parole, datore di lavoro non solo deve rispettare le norme anti - infortunistiche che disciplinano il lavoro in luoghi pericolosi o insalubri, prescrivendo specifici mezzi di prevenzione e protezione. Oltre a ciò, il datore di lavoro deve prevenire i danni, tra l'altro, alla salute, adottando tutti gli strumenti resi disponibili dall'attuale stato della scienza e della tecnica, benchè non espressamente contemplati dalle norme anti - infortunistiche.

Insomma, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno biologico derivante da una menomazione fisica o psichica subita nell'espletamento della attività lavorativa. Più precisamente, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento qualora il lavoratore possa dimostrare non solo di aver subito una lesione fisica o psichica, ma anche che la lesione è dovuta al lavoro e non ad una causa diversa. Da quest'ultimo punto di vista, si può aggiungere che, per esempio nel caso di sordità, o in caso di simili lesioni, la prova che il danno dipende dal lavoro può essere fornita anche mediante l'allegazione della rendita riconosciuta dall'Inail per invalidità professionale. A tale riguardo bisogna anche precisare che la rendita per invalidità non è alternativa, ma aggiuntiva al risarcimento del danno biologico.

Se il lavoratore ha fornito le prove di cui si è parlato, il datore di lavoro potrà esimersi dal risarcimento dimostrando di aver rispettato non solo le norme anti - infortunistiche, ma anche l'art. 2087 c.c., quindi di aver utilizzato tutti i rimedi preventivi consentiti dall'attuale stato della scienza e della tecnica.

Se il datore di lavoro fallisce questa prova, il lavoratore potrà ottenere il risarcimento del danno, normalmente commisurato al grado di invalidità corrispondente alla lesione subita. Di regola, questo accertamento viene effettuato mediante consulenza tecnica, affidata ad un medico legale, che provvede alla quantificazione della invalidità; sulla scorta di questa quantificazione, il giudice liquiderà in via equitativa il danno.

 

Questione n. 2

E’ vero che il lavoratore può ottenere il risarcimento del danno biologico anche nel caso in cui la sua salute sia stata compromessa da un impegno eccessivo di lavoro?

 

Una sentenza della Corte di Cassazione (n.8267/97) ha affermato che il datore di lavoro è responsabile, ai sensi dell’art.2087 c.c., nei confronti del lavoratore dipendente, nel caso in cui quest’ultimo abbia subito una compromissione della salute determinata da un impegno eccessivo sul lavoro, ricollegabile a un numero di dipendenti insufficiente.

Secondo la Corte di Cassazione, la ricerca di livelli competitivi di produttività non può compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore; da questo principio viene fatto discendere il conseguente dovere dell’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore, compreso un organico adeguato al volume di produzione dell’azienda stessa.

Anche se il dipendente accetta di lavorare troppo, svolgendo una consistente mole di lavoro straordinario, pur nei limiti fissati dalla contrattazione collettiva, ciò non esime il datore di lavoro dal dovere di limitare questo sforzo eccessivo. Le risorse umane insomma debbono essere sufficienti a consentire un impegno lavorativo non eccessivo e comunque non pregiudizievole alla salute; se necessario, al fine di evitare che l’usura fisica e psichica determini danni alla salute del dipendente, l’organico aziendale deve essere rivisto e adeguato a un impegno sopportabile per tutti i dipendenti.

Anche se apparentemente eversivo, in termini di interferenza della Magistratura nella libertà d’impresa (art.41 Cost.) e quindi nella libertà dell’imprenditore di organizzare come meglio crede la propria azienda, il principio affermato dalla Cassazione non è altro se non un’applicazione concreta della norma contenuta nell’art.2087 c.c., secondo il quale "L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro".

Non si deve pensare che, in questo modo, si lascia decidere ai giudici le dimensioni dell’organico aziendale; piuttosto, la sentenza sopra citata mette a fuoco il dovere dell’imprenditore di darsi una struttura tale da evitare che uno o più lavoratori dipendenti siano costretti a fornire un apporto lavorativo che possa determinare danni alla salute, a causa dell’impegno eccessivo. In questo senso, nessun organico aziendale può essere predeterminato da un soggetto terzo; è lo stesso imprenditore che è tenuto a verificare costantemente la congruità del suo organico, per ampliarlo nei casi in cui ciò risulti necessario per impedire la lesione di un bene riconosciuto fondamentale dalla Costituzione (art. 32), quale la salute dei lavoratori dipendenti.

Il principio enunciato dalla Cassazione è ovviamente applicabile in ogni settore aziendale e in ogni tipo di mansione e funzione, e può dunque riguardare sia l’operaio che l’impiegato, sia il funzionario che il dirigente.

 

Questione n. 3

Il lavoratore che abbia subito un infarto può chiedere il risarcimento del danno biologico a carico del datore di lavoro?

 

Su tale aspetto è recentemente intervenuta la Cassazione (sentenza n. n. 12339 del 5 novembre 1999) enunciando un principio di estrema importanza. La Suprema Corte è stata chiamata ad occuparsi della controversia promossa da un lavoratore colpito dapprima da depressione, e poi da un infarto al miocardio, di gravità tale da determinare un’invalidità di grado elevato. Tali danni alla salute erano stati ritenuti imputabili, dal Tribunale in precedenza occupatosi del caso, in parte al comportamento del datore di lavoro, che per lungo tempo aveva sottratto al lavoratore i compiti di sua pertinenza, così determinando una situazione di stress sfociata dapprima in una sindrome depressiva e poi nell’infarto, ed in parte ad una preesistente patologia coronarica, che poteva essere considerata una delle cause dell’infarto. Pertanto, la responsabilità del danno, ed il conseguentemente risarcimento, erano stati posti solo in parte a carico della società datrice di lavoro.

Accogliendo il ricorso del dipendente, la Cassazione, ha invece posto interamente a carico della società la responsabilità del danno subito dal dipendente. Ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, la comparazione del grado di incidenza di più cause nel verificarsi di un danno può essere effettuata solo in presenza di più comportamenti umani colpevoli, ma non quando una delle concause sia, come nell’ipotesi esaminata, di origine naturale. Ciò significa, in sostanza, che il datore di lavoro può essere esonerato, in parte, dalla responsabilità a lui imputabile, solo nel caso in cui dimostri che il danno è stato determinato anche da un inadempimento ai propri obblighi del lavoratore, o di un altro soggetto, mentre non può invocare a giustificazione del danno subito dal lavoratore il fatto che lo stesso fosse precedentemente malato, o che comunque a determinare il danno abbia concorso anche qualche evento naturale ed imprevedibile.

Con altra sentenza (n. 1307 del 5/2/2000), la suprema Corte ha esaminato il caso di un lavoratore con qualifica di quadro, che aveva svolto per circa sette anni le mansioni di capo ufficio addetto alla organizzazione delle esposizioni di un Ente Fiera e, nel marzo 1986, aveva subito un infarto cardiaco. Conseguentemente si era rivolto al Pretore di Bari per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, sostenendo di essere stato costretto ad un'estenuante attività lavorativa con impegno medio settimanale di 60 ore a causa della inadeguatezza dell'organico e della complessità dei compiti affidatigli.

La domanda veniva rigettata dal Pretore e dal Tribunale. La sentenza del Tribunale era stata cassata dalla Suprema corte, sulla base del seguente principio: il potere imprenditoriale, volto alla massimizzazione della produzione, incontra un imprescindibile limite nella necessità di non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e nel far sì che nell'attività di collaborazione richiesta ai dipendenti venga predisposta una serie di misure, oltre quelle legali, che appaiono utili a impedire l'insorgere o l'ulteriore deteriorarsi di situazioni patologiche idonee a causare effetti dannosi alla salute del lavoratore (art. 41 c. 2 Cost. e art. 2087 c.c.). Conseguentemente, la Corte ha rinviato la causa al Tribunale di rinvio.

Il Giudice del rinvio ha successivamente accolto la domanda del lavoratore, ritenendo provata la sussistenza delle condizioni di superlavoro in cui aveva operato il dipendente nell'indifferenza del datore di lavoro. Il giudice del rinvio, inoltre, sulla base della consulenza tecnica che già era stata disposta dal Pretore, ha ritenuto che l'infarto subito dal lavoratore fosse da attribuire all'attività lavorativa, nonostante la sussistenza di altri fattori di rischio, quali la familiarità ipertensiva, il fumo di 15 sigarette al giorno e la vita sedentaria. Conseguentemente, il datore di lavoro è stato condannato a risarcire il danno, quantificato in L. 300.000.000, oltre interessi e rivalutazione.

La questione è infine tornata all'esame della Suprema corte a seguito di ricorso del datore di lavoro. L'impugnazione è stata rigettato dalla sentenza sopra citata, che ha definitivamente posto fine alla controversia. In particolare, è stato ritenuto che il datore di lavoro, per non compromettere l'integrità psico-fisica del lavoratore, deve attare tutte misure necessarie, compreso l'adeguamento dell'organico. L'adozione di tali misure, comprese appunto quelle intese ad evitare eccessività di impegno da parte del lavoratore, resta necessaria anche nel caso in cui il lavoratore accetti di prestare lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. monte ore contrattuale massimo, o rinunci a un idoneo periodo feriale. Né ha efficacia esimente per il datore di lavoro, che abbia omesso le misure atte ad impedire l'evento lesivo, l'eventuale concorso di colpa del lavoratore: il datore di lavoro è esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, dell'inopinabilità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.

Infine la Corte ha precisato che spetta al lavoratore fornire la prova della violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità psico-fisica del lavoratore. Al datore di lavoro spetta invece l’onere di provare che l’evento lesivo dipenda da un fatto a lui non imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza in relazione al procediemnto lavorativo e alle direttive impartite.

 

Questione n. 4

Quali sono le tutele accordate dal legislatore alla salute del lavoratore sul posto di lavoro?

 

Una recente sentenza della Corte di cassazione (n. 4721 del 9/5/98) consente di fare alcune precisazioni sulla questione.

Nel caso in questione, la vedova di un lavoratore, impiegato in un ambiente lavorativo ove erano presenti polveri di amianto e deceduto per mesotelioma peritoneale, aveva convenuto in giudizio il datore di lavoro chiedendone la condanna al risarcimento del danno. La domanda era fondata sull’art. 2087 c.c., che prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore. La società convenuta si era difesa sostenendo di aver adottato tutte le misure preventive e di sicurezza prescritte dalla normativa all’epoca vigente (luglio 1987). Pertanto, sia il Pretore che il Tribunale, constatato che la società non aveva ricevuto contestazioni per violazioni della normativa anti - infortunistica; constatato – tramite consulenza tecnica – che nell’ambiente di lavoro non vi era una concentrazione di fibre di amianto superiore al massimo consentito dalla legge all’epoca vigente, aveva rigettato la domanda presentato dalla erede del lavoratore.

La sentenza del Tribunale è stata però annullata dalla Corte di cassazione. Infatti, è stato ritenuto che l’art. 2087 c.c. costituisce la norma di chiusura della la normativa anti – infortunistica. In altre parole, le norme anti – infortunistiche che pongono specifici divieti o obblighi nei confronti del datore di lavoro costituiscono semplicemente l’applicazione ad un caso particolare del principio generale, ricavabile appunto dall’art. 2087 c.c.. Pertanto, il datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore subisca un danno alla propria salute, non può andare indenne dal risarcimento solo per il fatto di aver adottato le prescrizioni specificamente imposte dalla legge. Oltre a queste prescrizioni, resta il generale obbligo sancito dal già citato art. 2087, che impone al datore di lavoro, indipendentemente dalle specifiche disposizioni anti – infortunistiche, di adottare tutte le cautele necessarie, secondo l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica del dipendente. Pertanto, al di fuori degli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria, il datore di lavoro è responsabile dei danni derivanti da infortuni o malattie professionali, subiti da un suo dipendente a causa della nocività dell’ambiente di lavoro e in violazione dell’obbligo imposto dall’art. 2087 c.c..

Rispetto all’amianto va anche precisato che, più recentemente, la L. 257 del 27/3/92 ha disposto la cessazione dell’impiego dell’amianto nei luoghi di lavoro, predisponendo anche misure di sostegno per i lavoratori che sono stati esposti all’amianto, quali il pensionamento anticipato, la rivalutazione dei contributi pensionistici, il trattamento straordinario di integrazione salariale per i lavoratori addetti ad imprese che utilizzano o estraggano amianto, o che siano coinvolte in processi di ristrutturazione e riconversione industriale.