Quantificazione del danno

  • Il demansionamento illegittimo impone al datore di lavoro un obbligo risarcitorio che deve riguardare tutti gli aspetti del pregiudizio subito dal lavoratore, da accertare secondo le circostanze del caso concreto; per quanto riguarda il danno patrimoniale, esso deve essere riferito a ogni perdita di guadagno, conseguente all’illegittima modifica delle mansioni, restando irrilevante la circostanza che determinate voci retributive, decurtate a seguito dell’illegittimo demansionamento, avrebbero potuto subire variazioni anche in ipotesi di illegittimo esercizio dello ius variandi (fattispecie riferita alla perdita dei c.d. “decimi di senseria”). (Cass. 24/3/2010 n. 7046, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in D&L 2010, con nota di Lia Meroni, “Sulla riduzione della retribuzione nell’ipotesi di illegittimo esercizio dello ius variandi”, 551)

  • Il danno conseguente al demansionamento, essendo impossibile da provare nel suo preciso ammontare, deve essere quantificato - nei limiti del danno differenziale per quanto concerne il danno biologico - ricorrendo all'equità di cui all'art. 1226 c.c. avendo riguardo alla durata e all'entità del demansionamento, nonché alla notorietà della condizione di dequalificazione del lavoratore, senza operare alcuna distinzione tra i periodi di lavoro e i periodi di assenza per malattia, causalmente collegati al demansionamento, permanendo anche durante tali periodi la situazione di sconforto, stress, sofferenza e preoccupazione del lavoratore per la propria posizione lavorativa. (Trib. Monza 23/7/2009, Est. Dani, in D&L 2009, con nota di Sara Huge, "Ancora in tema di danni da demansionamento", 697)
  • Qualora dal demansionamento derivi in capo al lavoratore un grave danno psico-fisico, si configura a carico del datore di lavoro il reato di lesioni colpose, perseguibile d'ufficio, integrando la violazione di cui all'art. 2087 c.c. - sul piano soggettivo del reato - un'ipotesi di colpa specifica.(Trib. Monza 23/7/2009, Est. Dani, in D&L 2009, con nota di Sara Huge, "Ancora in tema di danni da demansionamento", 697)
  • Il danno da demansionamento deve essere liquidato tenendo conto sia del danno biologico, ove esistente, sia di un quid pluris a titolo di danno non patrimoniale derivante dalla lesione di un bene costituzionalmente protetto, quale la dignità del lavoratore; tale secondo danno si identifica con l'evento della dequalificazione, sicché il lavoratore non è onerato di fornire sul punto ulteriori prove. (Corte appello Firenze 13/7/2009, pres. ed est. Amato, in D&L 2009, con nota di Anna Rota, "Dequalificazione professionale e danno liquidabile dopo le decisioni delle Sezioni Unite", 729)
  • Il danno alla professionalità connesso alla mancata attività professionale è valutato in maniera equitativa nella misura di 1/3 della retribuzione spettante per ogni mese di dequalificazione. (Trib. Milano 29/8/2005, Est. Martello, in Orient. Giur. Lav. 2005, 553)
  • Il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Costituzione, avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello, determinando danni riconducibili nell’ambito del danno non patrimoniale. Orbene, secondo la richiamata giurisprudenza di questa Corte, la valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice che alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali (Cass. n. 8827 del 2003). A questi principi non si è attenuto il Tribunale di Milano, avendo quel giudice negato il ricorso al criterio equitativo e preteso dal danneggiato la prova specifica della diminuzione patrimoniale sofferta. Sotto questo profilo le censure del ricorrente si mostrano fondate e devono essere accolte. (Cass. 26/5/2004 n. 10157, Pres. Senese Rel. D’Agostino, in Lav. e prev. oggi 2004, 1091)
  • Il risarcimento del c.d. danno alla professionalità che consegue al consapevole e volontario svuotamento delle mansioni del lavoratore deve essere equatitavimente commisurato, pur in mancanza della prova del suo preciso ammontare, a quella parte della capacità professionale effettivamente pregiudicata secondo criteri equitativi che tengano conto di tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, della gravità e della durata della dequalificazione. (Trib. Milanon 14/4/2004, Est. Ravazzoni, in Lav. nella giur. 2004, 1304)
  • Ai sensi dell'art. 13 SL è configurabile un illecito demansionamento in caso di emarginazione e riduzione quantitativa dei compiti lavorativi del dirigente, il quale ha pertanto diritto ad ottenere dal datore di lavoro il risarcimento del danno alla professionalità, da quantificarsi in via equitativa facendo riferimento ad una quota della retribuzione mensile (nella fattispecie, il danno è stato quantificato nella misura del 20 % della retribuzione mensile per ogni mese di demansionamento). (Trib. Milano 1/4/2003, Est. Peragallo, in D&L 2003, 767)
  • L'opposizione al precetto ex art. 615 c.p.c. non è un mezzo di impugnazione, ma deve essere configurata come azione dichiarativa con la quale il debitore contesta il diritto del creditore a procedere all'esecuzione forzata. In caso di condanna del datore di lavoro a risarcire il danno cagionato al dipendente dequalificato, nella misura di una quota percentuale della retribuzione mensile per il tempo della lesione alla professionalità, il credito del lavoratore è determinabile sulla base della retribuzione risultante dalle buste paga, maggiorata della quota mensile della tredicesima mensilità. Gli effetti della sentenza che accerta la dequalificazione e condanna al risarcimento dei danni si protraggono anche dopo l'emanazione, fino a che permanga la dequalificazione. ( Corte d'Appello Milano 8/2/2002, Pres. Ed Est. Mannacio, in D&L 2002, 1064)
  • I danni causati da illegittima dequalificazione possono essere determinati dal giudice in via equitativa, facendo riferimento ad una quota della retribuzione mensile, da calcolarsi in base al perdurare nel tempo della lesione alla professionalità, nonché al divario tra le mansioni precedentemente svolte e quelle attribuite dopo il demansionamento. (Trib. Milano 22/12/2001, Est. Atanasio, in D&L 2002, 377)
  • E' infondata la pretesa di utilizzare - pur in caso di lavoro part-time - quale dato di partenza a fini del risarcimento del danno da demansionamento, l'integrale retribuzione mensile. Non esistendo criteri normativi per una liquidazione del danno da demansionamento (cosicché il giudizio del Tribunale si mantiene nell'ambito di una valutazione di fatto riservata al giudice di merito e insuscettibile di controllo in sede di legittimità) e poiché la dequalificazione può assumere vari livelli di incidenza tali da giustificare così differenti risarcimenti, è corretto l'utilizzo della retribuzione mensile quale mero parametro per una liquidazione equitativa ( in concreto inferiore alla retribuzione globale), anche perché la retribuzione non rappresenta soltanto il corrispettivo della capacità professionale (Cass. 20/1/01, n. 835, pres. Prestipino, est. Spanò, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 357)
  • Il danno da dequalificazione professionale - suscettibile di valutazione equitativa da parte del giudice - è determinabile in una quota della retribuzione mensile; tuttavia, in ipotesi di totale e durevole svuotamento delle mansioni, il danno è da commisurare all'intera retribuzione (Trib. Milano 26 aprile 2000, est. Atanasio, in D&L 2000, 750, n. PAVONE)
  • Il risarcimento del danno alla professionalità, che consegue al consapevole e volontario "svuotamento" delle mansioni del lavoratore, deve essere equitativamente commisurato, pur in mancanza della prova del preciso ammontare, a quella parte della capacità professionale effettivamente pregiudicata secondo i criteri equitativi che tengano conto di tutte le circostanze del caso concreto e, in particolare, della gravità e della durata della dequalificazione. Viceversa, a fronte del suddetto "svuotamento" delle mansioni, non è risarcibile il lamentato danno biologico in mancanza della prova specifica, incombente sul lavoratore, della misura del danno e del nesso causale con la condotta datoriale (Trib. Roma 4/4/00, est. Buonassisi, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 370)
  • In ipotesi di adibizione del lavoratore a nuove mansioni non equivalenti a quelle precedentemente svolte, va ritenuta l’illegittimità del demansionamento, con diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale subito, equitativamente determinabile nel 25% della retribuzione, per tutto il periodo di durata del provvedimento (Pret. Milano 26/6/99, est. Frattin, in D&L 1999, 883)
  • L’assegnazione del lavoratore a nuove mansioni, che non gli consentono di utilizzare e valorizzare le conoscenze teoriche e le capacità professionali acquisite nelle fasi pregresse del rapporto, è illegittima, e comporta la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nelle precedenti mansioni, o in altre equivalenti, e al risarcimento del danno alla professionalità, suscettibile di valutazione equitativa da parte del giudice. Vale a tal fine il parametro della retribuzione che, peraltro, può essere utilizzato come termine di riferimento, ma non integralmente accolto, attesa la funzione della propria retribuzione, comprensiva di diversi elementi della prestazione e non solo della capacità professionale del lavoratore (Pret. Milano 19/2/99, est. Martello, in D&L 1999, 375)
  • L’assegnazione a mansioni che impoveriscano il patrimonio professionale del lavoratore, inteso come insieme di specifiche conoscenze e capacità, e che causino un danno alla sua immagine professionale, compromettendo le opportunità di lavoro, configura un’ipotesi di dequalificazione e comporta il risarcimento del danno alla professionalità così cagionato; per la determinazione in via equitativa di tale danno si deve tener conto della retribuzione mensile e del protrarsi nel tempo della dequalificazione, poiché il danno cresce secondo una linea di sviluppo progressiva, correlata sostanzialmente al decorso del tempo, ma con le eventuali correzioni e attenuazioni legate alle diverse variabili caratteristiche di ogni distinta fattispecie (Pret. Milano 9/4/98, est. Negri della Torre, in D&L 1998, 704)
  • L’assegnazione di mansioni non equivalenti alle precedenti, in violazione dell’art. 2103 c.c., comporta la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nelle precedenti mansioni, o in altre equivalenti, oltre al risarcimento del danno causato dalla lesione del patrimonio professionale, effettivo e potenziale; per la liquidazione del danno da compiersi in via equitativa può farsi riferimento a una quota della retribuzione lorda (nella specie il 50%), per il periodo di dequalificazione (Pret. Milano 1/4/98, est. Vitali, in D&L 1998, 992)
  • In ipotesi di accertata illegittima dequalificazione, incombe sul lavoratore che agisca per ottenere il risarcimento del danno alla professionalità, l’onere della prova in relazione all’esistenza e all’entità del danno stesso, quantificabile equitativamente, in funzione di parametri quali la durata del demansionamento subito, e i suoi riflessi sul valore del lavoratore sul mercato, e sulla sua immagine professionale (Trib. Milano 9/11/96, pres. Gargiulo, est. de Angelis, in D&L 1997, 360, n. Tagliagambe, Verso la dequalificazione del danno da dequalificazione)
  • L'illegittima assegnazione del lavoratore a nuove mansioni non equivalenti alle precedenti, obbliga il datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità, suscettibile di determinazione in via equitativa da parte del giudice, valendo a tal fine il parametro della retribuzione che, peraltro, può essere utilizzato come termine di riferimento, ma non integralmente accolto, attesa la funzione propria della retribuzione, compensativa di diversi elementi della prestazione e non solo della capacità professionale del lavoratore (Pret. Milano 26/8/96, est, Martello, in D&L 1997, 140)
  • Il danno da dequalificazione deve essere quantificato in via equitativa. Il parametro della retribuzione percepita può tuttavia essere utilizzato per quella parte del risarcimento che è connessa con la perdita di capacità professionale del lavoratore (Pret. Milano 20/6/95, est. Curcio, in D&L 1995, 944)
  • L'attribuzione al lavoratore di mansioni non equivalenti alle precedenti, o comunque inferiori a quelle del livello di inquadramento, costituisce violazione dell'art. 2103 c.c. e comporta la condanna del datore di lavoro sia a riassegnare le precedenti mansioni sia a risarcire il danno all'immagine professionale così cagionato; per la determinazione di tale danno, da compiersi in via equitativa, può farsi riferimento a una quota della retribuzione mensile commisurata alla durata della dequalificazione (Pret. Milano 28/10/94, est. De Angelis, in D&L 1995, 374. In senso conforme, v. Pret. Monza 14/11/94, est. Buratti, in D&L 1995, 375; Trib. Milano 6/7/96, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 121)
  • L'illegittima dequalificazione del dipendente, avendo riflesso sulla sua immagine professionale e quindi sul suo "valore" sul mercato del lavoro, dà luogo a un danno patrimoniale risarcibile; la misura del risarcimento è determinabile in via equitativa, ai sensi degli artt. 1226 c.c. e 432 cpc, prendendo in considerazione, fra l'altro, il periodo di demansionamento e la relativa retribuzione (nella fattispecie è stato deciso un risarcimento pari al 50% della retribuzione dovuta per il periodo di demansionamento, non rivalutata) (Pret. Milano 16/9/94, est. De Angelis, in D&L 1995, 143)