Annullamento

  • Le disposizioni codicistiche in tema di annullamento del contratto per errore si applicano anche agli atti unilaterali, qual è l’atto di dimissioni, ai sensi dell’art. 1324 c.c.; va tuttavia rilevato che la fattispecie in esame non è sussumibile nell’ambito dell’errore determinante l’annullamento dell’atto, giacché l’errore di diritto invocato non concerne propriamente le dimissioni, non lamentando la ricorrente di aver errato né sulla natura, né sugli effetti dell’atto e che quindi fosse viziata la sua volontà di risolvere il rapporto di lavoro. L’errore di diritto è caduto invece su una norma giuridica concernente il distinto, ancorché collegato, rapporto previdenziale, giacché la lavoratrice si aspettava, attraverso il riconoscimento della rendita vitalizia, di aver maturato il diritto al trattamento pensionistico. (Trib. Roma 20/11/2020, Giud. Savignano, in Lav. nella giur. 2021, 425)
  • L’irrilevanza dell’errore sui motivi, sostenuta dalla dottrina prevalente, è confermata da un dato di diritto positivo, perché quando si è inteso conferire rilevanza al motivo lo si è espresso chiaramente, come previsto in tema di donazione, la quale ex art. 787 c.c. può essere impugnata per errore sul motivo, se questo risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità. (Trib. Roma 20/11/2020, Giud. Savignano, in Lav. nella giur. 2021, 425)
  • Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale quella prevista dall’art. 428 c.c.), costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere. Pertanto, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinuncia al posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso. (Cass. 21/11/2018 n. 30126, Pres. Napoletano Est. Tria, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di M. Pannone, “Annullabili le dimissioni rese in stato di forte turbamento psichico”, 57)
  • La violenza morale che si concreti nella minaccia di far valere un diritto è causa invalidante di un contratto o di un atto unilaterale, quali le dimissioni del lavoratore subordinato, allorché il suo autore intenda perseguire un vantaggio esorbitante e iniquo: tale minaccia è concretamente ravvisabile, sotto il profilo della effettiva funzione intimidatoria del comportamento, solo se venga prospettato un uso strumentale del diritto o potere, diretto non solo a realizzare l’interesse la cui soddisfazione è prevista dall’ordinamento, ma anche a condizionare la volontà. (Cass. 14/6/2016 n. 12215, Pres. Venuti Rel. D’Antonio, in Lav. nella giur. 2016, 928)
  • Perché l’incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere; la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata. (Cass. 28/10/2014 n. 22836, Pres. Roselli Est. Lorito, in Lav. nella giur. 2015, 89)
  • In caso di dimissioni date dal lavoratore in stato di incapacità naturale, il diritto a riprendere il lavoro nasce con la sentenza di annullamento ex art. 428 c.c., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda, stante il principio secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Solo da quel momento nasce il diritto alla retribuzione. (Cass. 14/4/2010 n. 8886, Pres. Roselli Est. Curzio, in D&L 2010, con nota di Nicola Coccia, "Annullamento delle dimissioni e diritto alle retribuzione pregresse", 579)
  • Nel regime del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione successivo all'entrata in vigore del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, l'atto di dimissioni è negozio unilaterale recettizio, come nel rapporto di lavoro privato disciplinato dalle norme codicistiche, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle. Ne consegue che la successiva revoca delle stesse è inidonea a eliminare l'effetto risolutivo che si è già prodotto; salva, in applicazione del principio di libertà negoziale, la facoltà delle parti di stabilire consensualmente di porre nel nulla le dimissioni con conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso. L'onere di fornire la dimostrazione di tale contrario accordo è a carico della parte che vi ha interesse (nella specie il lavoratore). (Cass. 10/2/2009 n. 3267, Pres. De Matteis, Rel. Sciarelli, in Lav. nelle P.A. 2009, 145) 
  • Le dimissioni del lavoratore, rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, sono suscettibili di essere annullate per violenza morale solo qualora venga accertata - e il relativo onere probatorio è carico del lavoratore che deduca l'invalidità dell'atto di dimissioni - l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso. (Cass. 2/10/2008 n. 24405, Pres. De Luca Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2009, 197)  
  • Ai fini dell'annullamento delle dimissioni, in quanto rese in stato di incapacità di intendere e di volere, non è necessario accertare che il lavoratore fosse, al momento dell'atto, in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che tali facoltà siano risultate diminuite in modo tale da impedire la formazione di una volontà cosciente. (Cass. 18/3/2008 n. 7292, Pres. De Luca Est. Cuoco, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, "Dimissioni rese dall'incapace e annullamento: l'assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti", 646, e in Lav. nella giur. 2008, 922)
  • L'azione di annullamento delle dimissioni, in quanto rese in stato di transitoria incapacità di intendere e di volere, è subordinata alla sussistenza del requisito del grave pregiudizio per il lavoratore, così come previsto dall'art. 428, 1° comma, c.c. applicabile agli atti unilaterali, e non anche alla sussistenza dell'ulteriore requisito della malafede del datore di lavoro, richiesto dall'art. 428, 2° comma, c.c., per l'annullamento dei contratti. (Cass. 18/3/2008 n. 7292, Pres. De Luca Est. Cuoco, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, "Dimissioni rese dall'incapace e annullamento: l'assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti", 646)
  • Ai fini dell'annullamento delle dimission, in quanto rese in stato di incapacità di intendere e di volere, non è necessario accertare che il lavoratore fosse, al momento dell'atto, in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che tali facoltà siano risultate diminuite in modo tale da impedire la formazione di una volontà cosciente. (Trib. Milano 24/1/2008, Est. Vitali, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, "Dimissioni rese dall'incapace e annullamento: l'assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti", 647)
  • L'azione di annullamento delle dimissioni, in quanto rese in stato di transitoria incapacità di intendere e di volere, è subordinata alla sussistenza del requisito del grave pregiudizio per il lavoratore, così come previsto dall'art. 428, 1° comma, c.c. applicabile agli atti unilaterali, e non anche alla sussistenza dell'ulteriore requisito della malafede del datore di lavoro, richiesto dall'art. 428, 2° comma, c.c., per l'annullamento dei contratti. (Trib. Milano 24/1/2008, Est. Vitali, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, "Dimissioni rese dall'incapace e annullamento: l'assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti", 647)
  • Nel caso dell'annullamento delle dimissioni per incapacità naturale del lavoratore, manca qualsiasi fatto (determinativo di danno, n.d.r.) non solo imputabile ma anche solo riferibile al datore di lavoro, il quale non può che prendere atto delle dimissioni del lavoratore. E' logico pertanto che lo stesso non abbia alcun obbligo nei confronti del lavoratore dimissionario, almeno fino alla pronuncia di annullamento, perchè il limite di tutela prevista in favore del lavoratore incapace è il ripristino del rapporto dalla sentenza, non anche le retribuzioni fino a quella data. (Trib. Milano 21/12/2007, Est. Beccarini, in Lav. nella giur. 2008, 532)
  • La permanenza del rapporto di lavoro, in conseguenza della nullità delle dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo di interdizione di cui all'art. 1 della L. n. 7 del 1963 (dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino a un anno dopo la celebrazione dello stesso), ripristinabile a semplice richiesta della lavoratrice, esclude l'indennizzabilità dello stato di disoccupazione alla stregua della normativa previdenziale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva fatto applicazione degli stessi criteri interpretativi enunciati da corte Cost. n. 269 del 2002, ravvisando l'eadem ratio della disposizione al vaglio dal Giudice delle leggi, di tutela dello stato di disoccupazione non dipendente da libera scelta del lavoratore). (Cass. 4/1/2007 n. 25, Pres. Ravagnani Est. Toffoli, in Lav. nella giur. 2007, 830)
  • Alle dimissioni rese da lavoratore incapace di intendere o di volere è applicabile il solo comma 1° dell'art. 428 c.c., con conseguente sufficienza del grave pregiudizio per l'incapace e irrilevanza del requisito della malafede del destinatario dell'atto unilaterale. (Corte App. Milano 4/9/2006, Pres. Ruiz Est. Accardo, in D&L 2007, 241 e in lav. nella giur. 2007, 525)
  • All'annullamento delle dimissioni rese da lavoratore in stato di incapacità di intendere e di volere consegue il diritto al pagamento delle retribuzioni dalla data della sentenza; tale diritto retroagisce al momento delle dimissioni solo se il datore di lavoro versi in stato di malafede. (Corte App. Milano 4/9/2006, Pres. Ruiz Est. Accardo, in D&L 2007, 241)
  • L’incapacità naturale che rileva come causa di annullamento del negozio giuridico delle dimissioni consiste nella transitoria impossibilità, per un momentaneo stato di alterazione delle proprie condizioni fisiche o mentali, di rendersi conto del contenuto e degli effetti del medesimo, e non può essere provocata esclusivamente da un dispiacere, anche grave, a meno che questo non abbia provocato una patologica alterazione mentale. (Cass. 8/3/2005 n. 4967, Pres. Ravagnani Est. Roselli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 169)
  • Ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, le dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente. (Cass. 12/3/2004 n. 5159, Pres. Ciciretti Rel. Vigolo, in Lav. e prev. oggi 2004, 735)
  • Perché l'incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere; la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata. (Cass. 14/5/2003 n. 7485, Pres. Sciarelli Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2003, 1160)
  • L'atto privo di data con il quale il lavoratore rassegne le proprie dimissioni in costanza di rapporto, in epoca nella quale egli non intenda porre fine al rapporto stesso, è nullo per difetto di causa e non può pertanto essere utilizzato dal datore di lavoro per far cessare il rapporto in epoca successiva (Corte d'Appello di Torino, 7/1/2003, Pres. Peyron, Est. Fierro, in Riv.it. dir. lav. 2003, 593)
  • Nel caso di annullamento per violenza morale delle dimissioni o della risoluzione consensuale, sono dovute al dipendente le retribuzioni maturate medio tempore, essendo irrilevante che il dipendente stesso abbia o no formalmente offerto la propria prestazione al datore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione di fatto del rapporto (Cass. 29/8/2002, n. 12693, Pres. Ciciretti, Est. Filadoro, in Riv. it. dir. lav. 2003, 581, con nota di Michele Mariani, Le conseguenze economiche della ricostituzione ope iudicis del rapporto di lavoro, fuori dalle ipotesi disciplinate dall'art. 18 St. lav.)
  • In ipotesi di dimissioni, rassegnate dal lavoratore dietro minaccia del datore di lavoro di adire le vie legali in sede civile e penale per gravi mancanze, non può ritenersi perseguimento di un vantaggio ingiusto, ai sensi dell'art. 1438 c.c. (in relazione alle circostanze concrete) la soluzione concordata del recesso per dimissioni che costituisce in astratto un vantaggio di natura bilaterale, nella misura in cui anche il lavoratore evita spiacevoli conseguenze in termini di immagine e di concreto, potenzialmente lungo e penoso, contrasto con il datore di lavoro; tuttavia tali dimissioni devono essere annullate per violenza morale ai sensi dell'art. 1435 c.c. qualora tale minaccia sia stata accompagnata dal comportamento complessivamente intimidatorio tenuto dal datore di lavoro (da valutarsi anche alla luce dei principi di correttezze e buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro), ovvero da modalità vessatorie e tali da escludere un pur breve spatium deliberandi necessario al pieno sviluppo ed alla genuina espressione della volontà del lavoratore di rassegnare le dimissioni. (Corte d'Appello Firenze 11/2/2002, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2002, 682, con nota di Gianni Tognazzi, "Annullamento delle dimissioni per violenza morale")
  • Dall'annullamento (con efficacia retroattiva) delle dimissioni rassegnate a seguito di violenza morale discende che il rifiuto di riammettere in servizio il lavoratore, a seguito di revoca delle dimissioni, costituisce illegittimo allontanamento dal posto di lavoro parificabile ad un licenziamento ingiustificato, con conseguente applicabilità del regime sanzionatorio di cui all'art. 18 SL (nella ricorrenza dei requisiti dimensionali aziendali). (Corte d'Appello Firenze 11/2/2002, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2002, 682, con nota di Gianni Tognazzi, "Annullamento delle dimissioni per violenza morale")
  • In caso di licenziamento seguito da dimissioni del lavoratore, in mancanza della prova rigorosa dell'esistenza di una più ampia e complessa fattispecie di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro - il cui onere incombe sulla parte che intenda avvalersene - le dimissioni sono nulle in quanto atto mancante di causa essendo il rapporto di lavoro già estinto a seguito del recesso intimato dal datore di lavoro. La successiva declaratoria di illegittimità del licenziamento con reintegrazione del lavoratore, a seguito dell'espressa previsione del CCNL per i dirigenti di casse rurali e artigiane, non fa rivivere l'atto di dimissioni che permangono nulle in quanto comunque intimate in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro (Corte Appello Firenze 26/6/01, pres. e est. Pieri, in Lavoro giur. 2002, pag. 170, con nota di Gorretta, Licenziamento disciplinare seguito da dimissioni: validità ed efficacia dei due atti)
  • In caso di licenziamento seguito da dimissioni del lavoratore, entrambi gli atti concorrono a rendere del tutto impossibile il ripristino del rapporto, del quale le parti sancirono, ciascuna per la sua parte, la definitiva risoluzione. Poiché le dimissioni sono valide, ancorché presentate dopo la comunicazione del recesso aziendale, il lavoratore è carente di interesse all'azione ex art. 100 c.p.c. (Trib. Firenze 18/5/00, pres. e est. Bazzoffi, in Lavoro giur. 2002, pag. 168, con nota di Gorretta, Licenziamento disciplinare seguito da dimissioni: validità ed efficacia dei due atti)
  • In tema di annullamento dell'atto di dimissioni del lavoratore, la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come la prospettazione di un male ingiusto di per sé, invece che come la minaccia di far valere un diritto (art.1438 c.c.), ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, per l'insussistenza dell'inadempienza addebitabile al dipendente (Cass. 28/12/1999 n.14621, pres. Lanni, , in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 738, con nota di Ponari, L'annullabilità delle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento di giusta causa. In senso conforme, v. Cass. 8/3/01, n. 3380, pres. Ghenghini, est. Lamorgese, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 313)
  • La minaccia di far valere un diritto, come ipotesi di violenza morale costituente causa di annullabilità di un contratto o di un atto unilaterale, quale l'atto di dimissioni di un lavoratore dipendente, può estrinsecarsi in modi vari e indefiniti, anche non espliciti, e può operare anche come semplice concausa dell'atto in ipotesi viziato, ma non assume rilievo se con il suo esercizio viene perseguito un effetto più ampio ma non abnorme rispetto a quello raggiungibile con l'esercizio del diritto; inoltre la minaccia rilevante ai sensi di legge è concretamente ravvisabile, sotto il profilo dell'effettiva funzione intimidatoria del comportamento, soltanto se venga prospettato un uso strumentale del diritto o del potere, diretto non solo alla realizzazione dell'interesse la cui soddisfazione è prevista dall'ordinamento, ma anche al condizionamento della volontà (Cass. 28/12/1999 n.14621, pres. Lanni, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 738, con nota di Ponari, L'annullabilità delle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento di giusta causa)
  • Ai fini dell'annullabilità dell'atto di dimissioni del lavoratore dipendente ottenuto con la minaccia di denuncia penale e di licenziamento vanno valutate, oltre all'obiettiva natura intimidatoria o no dell'invito alle dimissioni, anche, in modo compiuto e approfondito, le modalità fattuali del comportamento tenuto dal datore di lavoro (Cass. 28/12/1999 n.14621, pres. Lanni, , in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 738, con nota di Ponari, L'annullabilità delle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento di giusta causa)
  • Le dimissioni del lavoratore che siano state indotte dalla minaccia seria da parte del datore di lavoro di un licenziamento per fatti non veri, e che quindi non lo avrebbero giustificato, sono viziate da violenza e vanno annullate (Pret. Bari 9 luglio 1999, est. Notarnicola, in D&L 2000, 223)
  • In ipotesi di violazione dell'art. 1 L. 1369/60 le dimisisoni rassegnate dal lavoratore alla società appaltatrice sono prive di effetti giuridici poiché il rapporto di lavoro intercorre ex lege con l'impresa appaltante (Cass. 27/5/96 n. 4862, pres. Buccarelli, est. Vigolo, in D&L 1996, 988, nota MUGGIA, Società cooperative e appalto di mere prestazioni di lavoro)
  • Le dimissioni possono essere annullate, ai sensi dell'art. 428 c.c., quando risulti che il lavoratore le abbia rassegnate in stato di incapacità di intendere e di volere, e che dalle stesse gli sia derivato in grave pregiudizio; dall'annullamento delle dimissioni deriva – attesa la perdurante sussistenza del rapporto di lavoro – il diritto del lavoratore all'immediato ripristino del rapporto stesso e, quanto alla retribuzione, il diritto alla corresponsione con decorrenza dalla data di pronunzia della sentenza (Pret. Napoli 3/3/95, est. Di Lella, in D&L 1996, 215)
  • La minaccia di un licenziamento non costituisce violenza morale e, quindi, non è causa di annullamento delle dimissioni, laddove le stesse siano rese da un lavoratore che confessi di aver commesso gli addebiti contestati e questi ultimi siano di gravità tale da poter giustificare un licenziamento per giusta causa (Pret. Nola, sez. Pomigliano d'Arco, 18/2/95, est. Perrino, in D&L 1995, 679, nota FORTUNATO, L'annullabilità delle dimissioni)
  • Nel valutare l'annullabilità di dimissioni ottenute / estorte con la minaccia di denunce penali e di licenziamento per giusta causa, il giudice deve valutare l'obiettiva natura, intimidatoria o meno, dell'invito rivolto al lavoratore alle dimissioni, in relazione all'effettiva gravità del fatto illecito ascrivibile e al male ingiusto e notevole eventualmente paventato; vanno inoltre compiutamente e approfonditamente valutate le modalità fattuali del comportamento tenuto dal datore di lavoro o suo rappresentante, in rapporto all'entità del fatto concreto ascrivibile al lavoratore e a tutte le conseguenze, anche di ordine penale, notevolmente pregiudizievoli prospettate nell'immediatezza del fatto stesso (Cass. 1/6/94, pres. Alvaro, est. Caianiello, in D&L 1995, 207, nota MUGGIA, Dimissioni (ingiuste) estorte e licenziamento illegittimo: differenti conseguenze?)