Conseguenze

  • In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale ma, al contrario, non può prescindere da una specifica allegazione circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito dal dipendente. (Cass. 18/3/2014 n. 6230, Pres. Miani Canevari Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2014, 711)
  • In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e caratteristiche del pregiudizio medesimo; tale danno va quindi dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo la prova per presunzioni. (Cass. 16/10/2013 n. 23530, Pres. Vidiri Rel. Bandini, in Lav. nella giur. 2014, 184)
  • Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del lamentato pregiudizio, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombe sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (confermata, nella specie, la decisione dei giudici di merito, che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per demansionamento avanzata da un medico direttore del reparto di psichiatria, atteso che il ricorrente aveva omesso di allegare circostanze concrete, dalle quali poter desumere che la riduzione strutturale del servizio di psichiatria territoriale e l’annessa riduzione qualitativa dell’incarico direttivo avesse deteriorato la specifica professionalità del lavoratore e ne avessero compromesso l’evoluzione di carriera). (Cass. 15/6/2012 n. 9860, Pres. Roselli Est. Berrino, in Orient. Giur. Lav. 2012, 276)
  • In ipotesi di mobbing, concretizzatosi nel protratto demansionamento del lavoratore ed in comportamenti lesivi della sua persona, il datore di lavoro risponde dei danni per violazione dell'art. 2087 c.c. (Trib. Campobasso 16/1/2004, Est. Valle, in D&L 2004, 107)
  • Il demansionamento ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato. Tale lesione produce automaticamente un danno rilevante sul piano patrimoniale, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa. L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, supera l'affermazione per cui la mortificazione della professionalità possa dar luogo a risarcimento solo ove venga fornita la prova dell'effettiva esistenza di un danno patrimoniale. La prova, viceversa, rimane necessaria per quanto riguarda l'eventuale danno materiale. (Cass. 2/1/2002, n. 10, Pres. Mercurio, Est. Coletti, in Riv. it dir. lav. 2003, 58, con nota di Carlo Quaranta, La dimensione equitativa della valutazione del danno da demansionamento).
  • Il demansionamento professionale dà luogo ad un pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore, violando non solo lo specifico divieto di cui all'art. 2103 c.c., ma costituendo anche offesa alla dignità professionale del prestatore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi di lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio che ne deriva incide sulla vita professionale e di relazione dell'interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione equitativa (Cass. 18/10/99, n. 11727). L'affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore possa dar luogo a risarcimento solo ove venga fornita la prova dell'effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. sentenze 11/8/98, n. 7905; 4/2/97, n. 1026 e 13/8/91, n. 8835).Va invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca addizionalmente una lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta da ogni riferimento alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di occasioni concrete di progressione lavorativa (Cass. 6/11/00, n. 14443, pres. Trezza, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2287)
  • La revoca dell'incarico dirigenziale con assegnazione, dietro ordine giudiziale, a mansioni di posizione professionale non equivalente, occasiona per il lavoratore rimosso sia il diritto al risarcimento del danno - per violazione degli artt. 2 e 41 Cost. e 2087 c.c. - alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il riflesso che la dequalificazione professionale ha, sia nell'ambiente di lavoro sia all'esterno, sulla dignità dell'uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di carriera, sull'immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche allo status sociale (cosiddetto danno alla personalità morale), sia il diritto al risarcimento del danno alla professionalità (tutelata dall'art. 2103 c.c.) che consiste nel mancato incremento delle conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle conoscenze e capacità acquisite, nonché - quando sussistente - del danno biologico (per lesione anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire dell'integrità dello stato di salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca anche reato). Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo l'id quod plerumque accidit ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n. 11727/99) (Trib. Treviso 13/10/00, pres. e est. Ferretti, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2324)
  • Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all'art 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell'interessato, ha un'indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto dall'art. 1226 c.c. (nel caso di specie la sentenza impugnata - cassata dalla S.C.- aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull'assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell'onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile) (Cass. 18/10/99, n. 11727, in Lavoro giur. 2000, pag. 244, con nota di Mannaccio)
  • L’assegnazione di mansioni non equivalenti alle precedenti, in quanto appartenenti a un tipo di professionalità diversa, è illegittima per violazione dell’art. 2103 c.c. e deve pertanto ritenersi ammissibile l’ordine di reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte (Pret. Genova 15/5/98 (ord.), est. Ravera, in D&L 1998, 987, nota Bottani, Sul giudizio di equivalenza ex art. 2103 c.c.)
  • La privazione del lavoratore di ogni mansione viola l’art. 2103 c.c. e comporta la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti (Pret. Milano 7/4/98, est. Curcio, in D&L 1998, 702)
  • L’assegnazione di nuove mansioni che riducano le attribuzioni del lavoratore, e ne svuotino qualitativamente la posizione professionale complessiva, comporta un danno alla dignità e personalità del dipendente, che sono beni protetti a livello costituzionale, e un danno da perdita di chances nel mercato del lavoro, in conseguenza del diminuito livello professionale; conseguentemente, il datore di lavoro deve essere condannato alla reintegrazione del dipendente nelle precedenti mansioni, o in altre equivalenti, nonché al risarcimento dei danni conseguenti alla dequalificazione (nella fattispecie, si è ritenuto che per la determinazione di tali danni, da compiersi in via equitativa, si possa fare riferimento a una quota della retribuzione mensile, crescente con il perdurare nel tempo della lesione alla professionalità, fino a raggiungere il 100% della retribuzione stessa) (Pret. Milano 9/12/97, est. Ianniello, in D&L 1998, 421, n. BOTTANI, Sulla nozione di danno alla professionalità)
  • L’assegnazione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla categoria di appartenenza, che non consentano alcun arricchimento del patrimonio professionale, né avanzamenti di carriera, e che al contrario determinino uno stato di inoperosità ed emarginazione, viola l’art. 2103 c.c. e comporta la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nelle mansioni precedenti ovvero in altre a esse equivalenti e altresì al risarcimento del danno alla professionalità così cagionato; per la determinazione in via equitativa di tale danno può farsi riferimento a una quota della retribuzione mensile commisurata alla durata della dequalificazione (Trib. Milano 30/5/97, pres. Gargiulo, est. Ruiz, in D&L 1997, 789)
  • Il mutamento di mansioni disposto dal datore di lavoro contrasta con il complessivo modello di tutela previsto dall'art. 13 S.L. qualora la mansione di destinazione risulti di minore rilievo professionale rispetto a quella di provenienza – avuto conto, delle responsabilità, dell'attività di coordinamento di altro personale e dell'inquadramento caratterizzanti la prima mansione – e altresì risulti il mancato rispetto della professionalità acquisita, attesa la diversità di competenze necessarie per lo svolgimento delle nuove mansioni; il contrasto con il modello di tutela legale giustifica l'ordine di reintegrazione nelle mansioni di provenienza (Trib. Milano 25/10/95, pres. ed est. Siniscalchi, in D&L 1996, 152)
  • Ove il datore di lavoro, non avendo più bisogno dell'attività inizialmente affidata al dipendente, lo lasci totalmente inoperoso, pone in essere un inadempimento contrattuale, in violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c.; conseguentemente, il datore di lavoro deve essere condannato ad adibire il dipendente a mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita (Pret. Milano 11/3/96, est. Curcio, in D&L 1996, 677)
  • Ove il lavoratore sia rimasto vittima di una dequalificazione, deve ritenersi ammissibile l'ordine di reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte o in altre effettivamente equivalenti; l'eventuale incoercibilità di un simile ordine, infatti, non priva lo stesso di un'autonoma utilità, ravvisabile, oltre che nella possibilità della decisione di produrre i suoi effetti normali mediante esecuzione volontaria, anche nel fatto che la stessa può costituire il presupposto di ulteriori conseguenze giuridiche, derivanti dall'inosservanza dell'ordine contenuto nella sentenza, eventualmente anche di rilievo penale (Trib. Roma 3/1/96, pres. Cecere. Est. Pagetta, in D&L 1997, 117)