Mobbing in genere

  • Perché sussista il danno da mobbing, il lavoratore deve provare: la molteplicità delle condotte persecutorie o illecite, poste in essere in modo sistematico e prolungato contro di lui; l’evento lesivo della sua salute o personalità; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica; l’intento persecutorio. (Cass. 29/12/2020 n. 29767, ord., Pres. Di Paolantonio Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2021, 311)
  • È risarcibile il danno patito dal lavoratore, pur nella accertata insussistenza della configurabilità di una condotta di “mobbing”, laddove alcuni comportamenti denunciati, esaminati singolarmente ma sempre in sequenza causale, pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati comunque vessatori e mortificanti e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, tenuto a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili. (Cass. 28/2/2018 n. 16256, Pres. Manna Est. Belle, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di F. Lamberti, “Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno patito anche se non risulta provato il mobbing”, 793)
  • La sussistenza di condotte mobbizzanti, anche nel rapporto di pubblico impiego, deve essere necessariamente qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione o emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito che è imprescindibile ai fini della enucleazione del mobbing. Conseguentemente, un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante. (Trib. Milano 9/9/2016, Giud. Bertoli, in Lav. nella giur. 2017, 101)
  • Per mobbing deve intendersi quella condotta sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistemativi e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. ( Trib. Firenze 7/7/2016, Giud. Taiti, in Lav. nella giur. 2016, 1133)
  • Ai fini della configurabilità del mobbing sono rilevanti quattro elementi: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (Cass. 28/8/2013 n. 19814, Pres. Roselli Est. Blasutto, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Elena Pasqualetto, “Intenzionalità del mobbing e costrittività organizzativa”, 63)
  • Ai fini della sussistenza del mobbing sono necessari due elementi e, cioè, l’intenzionalità e la consapevolezza e la reiterazione e la sistematicità delle condotte finalizzate all’isolamento e all’emarginazione del lavoratore, attuate spesso attraverso atti di demansionamento, di inattività forzata e di privazione dei necessari strumenti di lavoro. (Trib. Milano 17/4/2013, Giud. Scarzella, in Lav. nella giur. 2014, 91)
  • Ai fini della deduzione del mobbing non è sufficiente la prospettazione di un mero “svuotamento della mansioni”, occorrendo anche l’allegazione sia di una serie di atti vessatori collegati, sia della preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente. (Cass. 2/4/2013 n. 7985, Pres. Lamorgese Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2013, 612)
  • Non è qualificabile come condotta mobbizzante lo spostamento dalla postazione lavorativa del dipendente per una sola settimana e per ragioni oggettivamente accertabili, quali la necessità di garantire l’accesso esclusivo ad alcuni locali a una società di consulenza esterna per ragioni di indagini difensive, in un procedimento penale a carico dell’organizzazione datrice di lavoro. (Trib. Roma 28/11/2012, ord., in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di A. Bussolaro, “Licenziamento, mobbing e insubordinazione in un gruppo parlamentare”, 305)
  • Le condotte vessatorie e maltrattanti poste in essere da un dirigente nei confronti di un suo sottoposto all’interno di un’azienda, anche di grandi dimensioni, integrano il reato di cui all’art. 572 c.p. ove nell’unità operativa, in cui i soggetti operano, vi sia una sostanziale condivisione della quotidianità della vita lavorativa, delle relazioni interpersonali e anche degli spazi. (Trib. Milano Sez. V pen. 5/3/2012, Est. Gatto, in D&L 2012, con nota di Livia Chiara Mazzone, “Novità interpretative in tema di applicabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. a casi di mobbing”, 845)
  • Per “mobbing” si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente del lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. L’apprezzamento circa la sussistenza in concreto degli estremi del mobbing costituisce valutazione di merito che, ove basata su motivazione adeguata e priva di vizi logici, sfugge al sindacato di legittimità. (Nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore non ravvisandosi un nesso causale tra la patologia psichica da cui il medesimo era risultato affetto e il disagio derivante dall’ambiente lavorativo e non essendo nemmeno possibile individuare i soggetti responsabili dell’allegato mobbing con riferimento a comportamenti specifici e rilevanti). (Cass. 10/1/2012 n. 87, Pres. De Renzis, Est. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2012, 304)
  • Le condotte vessatorie e maltrattanti poste in essere da un direttore e da un responsabile di un punto vendita di una catena della grande distribuzione nei confronti di un loro sottoposto integrano il reato di cui all’art. 572 c.p. ove nell’unità operativa in cui i soggetti operano vi sia una quotidianità lavorativa nonché la sussistenza di un rapporto personale e immediato tra questi soggetti, indipendentemente dalla dimensione della realtà aziendale. (Trib. Milano Sez. V 30/11/2011, Est. Canali, in D&L 2012, con nota di Livia Chiara Mazzone, “Novità interpretative in tema di applicabilità del reato di cui all’art. 572 c.p. a casi di mobbing”, 845)
  • Il mobbing costituisce, come è noto, un fenomeno enucleato dalla psicologia e dalla sociologia, senza una propria autonoma dignità giuridica. La nozione tradizionale di mobbing lo riconduce nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. (…). Sono caratteristiche di questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti; la volontà che lo sorregge, diretta alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente; la conseguente lesione arrecata al lavoratore, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. (Trib. Milano 7/11/2011, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2012, 198)
  • Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità. La prova di tale condotta involge un giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità. (Cass. 21/5/2011 n. 12048, Pres. Miani Canevari Est. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2011, 844, e in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Nicola Ghirardi, “La fattispecie di mobbing ancora al vaglio della Cassazione”, 59)
  • Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (Cass. 21/5/2011 n. 12048, Pres. Miani Canevari Est. Filabozzi, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Nicola Ghirardi, “La fattispecie di mobbing ancora al vaglio della Cassazione”, 59)
  • Possono essere stigmatizzate come condotte di mobbing soltanto le fattispecie più gravi e non i meri episodi di inurbanità, scortesia o addirittura maleducazione. (Trib. Trieste 14/1/2011, Giud. Multari, in Lav. nella giur. 2011, 421)
  • È necessaria la prova della finalità illecita. Tuttavia tale indagine non coincide con la ricerca dell’intento persecutorio personale del mobber, né con l’esame dell’aspetto soggettivo della condotta (dolo o colpa). La finalità illecita può essere apprezzata dal giudice in relazione all’idoneità lesiva dei beni della persona e alla intrinseca ratio discriminatoria, che può essere accertata con le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta, oltre alla permanenza nel tempo della condotta. (Trib. Trieste 14/1/2011, Giud. Multari, in Lav. nella giur. 2011, 421)
  • Le pratiche persecutorie (mobbing) realizzate dal datore di lavoro ai danni del lavoratore, e finalizzate alla sua emarginazione, possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia solo se il rapporto tra i detti soggetti assuma natura para-familiare, se risulti cioè caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita condivise, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di garanzia. (Cass. pen. 13/1/2011 n. 685, Pres. Serpico Rel. Milo, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Natalina Folla, 1025)
  • La fattispecie conosciuta come mobbing gerarchico o verticale o bossing consiste nel complesso di comportamenti di ostracizzazione connotati da violenza, come abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, etc. perpetrate da parte di superiori, ripetuti per un apprezzabile lasso temporale e lesivi della dignità personale e professionale, nonché eventualmente, della salute psico-fisica del lavoratore, tenuti con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro. (Trib. Bologna 13/4/2010, Giud. Coco, in Lav. nella giur. 2010, 737)
  • Per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente in violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. e consistente in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore, correttamente individuati dal giudice di merito in continui insulti e rimproveri con umiliazione e ridicolizzazione davanti ai colleghi di lavoro, e nella frequente adibizione a lavori più gravosi rispetto a quelli svolti in precedenza. (Cass. 26/3/2010 n. 7382, Pres. Roselli Est. D'Agostino, in Orient. giur. lav. 2010 388)
  • Il mobbing consiste nella condotta datoriale, realizzata attraverso comportamenti materiali e atti giuridici, posta in essere in un ampio arco temporale, idonea a vessare e discriminare il lavoratore e sorretta da nessuna plausibile finalità, se non quella di mortificare, umiliare e punire il dipendente, tanto da indurlo all’allontanamento dalla struttura. (Trib. Modena 18/1/2010, Est. Ponterio, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Un caso di mobbing tra condotta datoriale, fondamento normativo e risarcimento del danno”, 523)

  • La responsabilità per mobbing regge essenzialmente sull’art. 2087 c.c. che obbliga l’imprenditore ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, affinché siano salvaguardate sul luogo di lavoro la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione. (Trib. Modena 18/1/2010, Est. Ponterio, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Un caso di mobbing tra condotta datoriale, fondamento normativo e risarcimento del danno”, 523)

  • Se è innegabile la valenza esistenziale del rapporto di lavoro, vale a dire il diretto coinvolgimento in esso del lavoratore come persona, e se è univocamente dimostrata, in base ai dati istruttori, una condotta datoriale vessatoria e ingiusta, può dirsi senz’altro realizzato un danno esistenziale,  inteso come danno all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine e alla vita di relazione e, più in generale, lesione del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato agli artt. 1 e 2 Cost. (Trib. Modena 18/1/2010, Est. Ponterio, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Un caso di mobbing tra condotta datoriale, fondamento normativo e risarcimento del danno”, 523)

  • La fattispecie del mobbing ricade nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Ricade sul lavoratore l'onere di documentare l'inadempimento contrattuale del datore di lavoro, il danno e il nesso di causa tra il primo e il secondo, mentre il datore di lavoro deve provare di aver garantito la protezione legislativamente richiesta ex art. 2087 c.c., direttamente o mediante vigilanza e intervento sull'operato dei propri collaboratori. Non dà luogo a un'ipotesi di mobbing e, come tale, non legittima alcuna pretesa risarcitoria il ricorrere sul luogo di lavoro di difficoltà relazionali, legate alla cattiva predisposizione del lavoratore rispetto all'ambiente di lavoro, se non sussiste alcun intento persecutorio da parte del datore di lavoro o dei colleghi. (Trib. Milano 20/4/2009, d.ssa Cuomo, in Lav. nella giur. 2009, 849)
  • È correttamente motivata la sentenza di merito che abbia ravvisato il compimento di una complessiva operazione di mobbing nella pretestuosa irrogazione di sanzioni disciplinari a una lavoratrice, sorretta dalla volontà del datore di colpirla, culminante nella comminazione del licenziamento, basato anche sulle sanzioni precedenti. (Cass. 23/3/2009 n. 6907, Pres. Sciarelli Est. Monaci, in Orient. Giur. Lav. 2009, 121)
  • Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità; ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute e della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico e il pregiudizio dell’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (Cass. 17/2/2009 n. 3785, Pres. Sciarelli Est. D’Agostino, in Orient. Giur. Lav. 2009, 115)
  • La caratteristica essenziale per definire come esistente un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto e per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumere significatività oggettiva a tali atti, tipici dell'imprenditore o meno, e permettendo di distinguerli dal conflitto puro e semplice. Accanto al profilo strutturale della ripetitività degli atti vessatori, è invece discusso se debba necessariamente ravvisarsi un profilo finalistico, inteso come valutazione della finalità illecita del motivo vessatorio: in proposito, basti osservare come tale valutazione debba essere intesa come idoneità lesiva dei beni della persona, verificabile attraverso la monodirezionalità della condotta, la pretestuosità della stessa e ancora una volta il permanere nel tempo del comportamento vessatorio. (Trib. Milano 24/12/2008, Est. Vitali, in Lav. nella giur. 2009, 420) 
  • Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente illegittimi), la volontà che li sorregge (diretta alla persecuzione ed emarginazione del dipendente) e la conseguente lesione attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. (Cass. 9/9/2008 n. 22858, Pres. Senese Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Giorgio Mannacio, 1235, e in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Nicola Ghirardi, "Il mobbing all'esame della Cassazione: alcune importanti osservazioni sulle caratteristiche della fattispecie e sugli obblighi del datore di lavoro", 293)
  • Tra gli obblighi a carico del datore di lavoro, di cui all'art. 2087 c.c., non rientra quello di intervenire come "mediatore" nei frequenti attriti e antipatie tra i colleghi di lavoro. (Trib. Milano 28/8/2008, Est. Tanara, in Orient. della giur. del lav. 2008, 690)
  • Viene ribadita nella sentenza la nozione di "mobbing" così come è stata ampiamente elaborata da tempo da parte della giurisprudenza. Con la decisione in esame, la Corte Suprema conferma un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, in base al quale va qualificata come "mobbing" ogni "ipotesi di comportamento materiale o di provvedimento (del datore di lavoro) che sia contraddistinto da finalità persecutorie o di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa, indipendentemente dalla violazione (da parte del lavoratore) di specifici obblighi contrattuali". La sentenza affronta poi alcune questioni di natura eminentemente processuale, ritenendo peraltro infondati i motivi prospettati dal ricorrente anche a questo riguardo. (Cass. 1/8/2008 n. 21028, Pres. Sciarelli Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Gianluigi Girardi, 1253)
  • Il mobbing, inteso come atteggiamento di carattere persecutorio e discriminatorio da parte del datore di lavoro nei confronti di un lavoratore che è frustrato nelle sue aspettative umane e professionali può provocare un danno biologico, morale ed esistenziale. Tali danni vanno separatamente provati e risarciti. Il demansionamento può dare luogo al danno professionale, inteso come concreto depauperamento della professionalità acquisita, il quale può essere riconosciuto solo in presenza di adeguata allegazione. (Trib. Milano 30/7/2008, d.ssa Sala, in Lav. nella giur. 2009, 96)
  • Va respinta la domanda risarcitoria del danno da mobbing proposta dal pubblico dipendente con rapporto di lavoro non contrattuale, in mancanza di prova dell'intento persecutorio della p.a. datrice di lavoro, che non è evincibile dall'illegittimità di provvedimenti amministrativi i quali non siano impugnati. (Cons. Stato 27/5/2008 n. 2515, Pres. Frascione Est. Poli, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Luca Ratti, "Mobbing e pubblico impiego non privatizzato", 1075)
  • Il mobbing è istituto di origine giurisprudenziale, con riferimento al quale si intende la reiterazione, sul luogo di lavoro, di soprusi da parte dei superiori o dei colleghi di lavoro in danno del dipendente attraverso condotte dirette a isolarlo nell'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo; condotte il cui effetto è di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del prestatore di lavoro menomandome la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso creando stati di depressione. (Trib. Benevento 22/4/2008, Est. De Matteis, in Lav. nella giur. 2008, 1282)
  • Poiché si configuri mobbing non è sufficiente che il superiore gerarchico abbia tenuto, per un breve periodo di tempo, un comportamento aggressivo nei confronti del lavoratore, venendo in questo caso a mancare i caratteri della sistematicità e della reiterazione dei comportamenti vessatori. (Trib. Milano 18/4/2008, Est. Scudieri, in Orient. giur. lav. 2008, 732)
  • Non può considerarsi idonea a configurare mobbing la mera decisione aziendale di trasferire il lavoratore presso un diverso stabilimento, prevista da un accordo sindacale concluso a seguito della procedura per riduzione del personale, ove non siano state poste in essere vessazioni ripetute e sistematiche rivolte in modo specifico e individuale contro il lavoratore per un apprezzabile periodo di tempo. (Trib. Milano 31/1/208, d.ssa Vitali, in Lav. nella giur. 2008, 1174)
  • Anche nel pubblico impiego, pur in assenza di una specifica, rigida regolamentazione, il mobbing si caratterizza per la presenza di precisi, essenziali elementi distintivi quali la sistematicità delle condotte mobizzanti, la ripetitività temporale e la loro natura tipicamente persecutoria e discriminatoria. (Corte app. Torino 15/1/2008 n. 19, Pres. Peyron Rel. Sanlorenzo, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Antonio Quagliarella, 927)
  • Allorquando il datore di lavoro pubblico adibisca il lavoratore a mansioni inferiori, e tale decisione si manifesti come arbitraria e non sorretta da adegiata ponderazione e valutazione della eventuale presenza di altri soggetti idonei allo svolgimento delle stesse mansioni, questa integrerà gli estremi del mobbing che, nel caso specifico è da ritenersi descritto dalla fattispecie penale di cui all'art. 323 c.p. che disciplina l'abuso d'ufficio Cass. 7/11/2007 n. 40891, Pres. Mannino Rel. Martella, in Lav. Nelle P.A. 2008, con commento di Maria Giovanna Murrone, "Mobbing e reato di abuso d'ufficio", 1114)
  • La condotta di mobbing presuppone una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti convergenti a esprimere ostilità del soggetto attivo verso la vittima e di efficace capacità di mortificare e isolare il dipendente, onde configurare una vera e propria condotta persecutoria nell'ambiente lavorativo. Pur mancando di tale fattispecie una precisa figura incriminatrice penale, la figura di reato più prossima è quella dei maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione (art. 572 c.p.), per la cui punibilità deve essere verificata la serie complessiva degli episodi lesivi contestati, in ordine alla loro sistematicità e durata dell'azione e nel tempo, le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione della condotta e, per la contestazione dell'aggravante specifica delle procurate lesioni gravi, l'individuazione della conseguenza patologica a essa riconducibile (nel caso in esame la Cassazione non rileva nè carenza nè illogicità nella motivazione della sentenza impugnata, attesa la radicale insufficienza del compendio probatorio e della contestazione dell'accusa, incapace di descrivere i tratti dell'azione censurata). (Cass. 29/8/2007 n. 33624, Pres. Pizzuti Rel. Sandrelli, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Alessia Muratorio, 991)
  • Il termine mogbbing viene adottato per caratterizzare in modo immediato e sintetico una serie di comportamenti attinenti alle molestie morali e psicofisiche nei luoghi di lavoro. In assenza di una definizione giuridicamente rilevante di tale fenomeno e di una disciplina sanzionatoria del mobbing in quanto tale è necessario fare riferimento alle norme esistenti nell'ordinamento dettate per la tutela delle condizioni di lavoro, quindi, in primis, all'art. 2087 c.c. Per la configurabilità di un'ipotesi di mobbing sono imprescindibili i seguenti elementi: la sistematicità di comportamenti "mobbizzanti", la protrazione di tali comportamenti per un apprezzabile lasso di tempo e il carattere oggettivamente persecutorio e/o discriminatorio di tali comportamenti, associato a una condotta emulativa e pretestuosa. (Trib. Grosseto 22/2/2007, Dott. Ottati, in Lav. nella giur. 2007, 1151)
  • E' riconducibile al fenomeno del mobbing quel comportamento reiterato nel tempo che, secondo i requisiti richiesti dalla psicologia del lavoro internazionale e nazionale, è posto in essere da parte di una o più persone, colleghi (c.d. mobbing orizzontale) o superiori (c.d. mobbing verticale) della vittima, è teso a respingere dal contesto lavorativo il lavoratore mobbizzato il quale, a causa di tale comportamento reiterato in un certo lasso di tempo sufficientemente apprezzabile, subisce un pregiudizio anche di ordine fisico. (Trib. Tivoli 23/1/2007, Est. Giordano, in D&L 2007, 1136)
  • Posto che ai fini del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore non è indispensabile che le condotte costituenti mobbing siano di per sé illecite, il mobbing obbliga il datore di lavoro a risarcire il danno alla salute e alla dequalificazione professionale conseguentemente sofferto dal lavoratore, fermo restando che, qualora il mobbing non abbia dato luogo a una vera e propria invalidità psico-fisica, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno esistenziale da liquidarsi in via equitativa. (Trib. Tivoli 23/1/2007, Est. Giordano, in D&L 2007, 1136)
  • Dal riconoscimento del diritto della lavoratrice all'indennità sostitutiva del preavviso, in dipendenza delle dimissioni per giusta causa, deriva altresì il suo diritto al risarcimento dei danni (patrimoniali, psicologici e morali) posto che, dalla qualificazione come contrattuale della responsabilità del datore di lavoro per danno da mobbing, derivante da inadempimento dell'obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) deriva che il datore di lavoro non assolve l'onere della prova liberatoria - posta a suo carico - se non allega e dimostra l'adozione di una qualsiasi misura di sicurezza idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, non essendo sufficiente a tal fine limitarsi a dedurre una propria iniziativa volta alla repressione e non già alla prevenzione dei fatti "mobbizzanti" (nel caso di specie, la lavoratrice aveva denunciato un comportamento vessatorio attuato nei suoi confronti dal Presidente dell'Associazione da cui dipendeva, a seguito del quale il Presidente era stato tempestivamente deferito al Collegio dei probiviri). (Cass. 25/5/2006 n. 12445, Pres. Ciciretti Rel. De Luca, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Lucia Valente, "Dimissioni per g.c. e risarcimento dei danni: i conseguenti oneri di allegazione e prova del lavoratore e di prova liberatoria del datore nell'azione risarcitoria per violazione dell'obbligo di sicurezza", 66)
  • Perchè si possa configurare un risarcimento per danno da mobbing è indispensabile che il lavoratore fornisca la prova della presenza del comportamento vessatorio del datore di lavoro reiterato nel tempo, con episodi successivi e ripetuti, altresì, animati dall'intento esclusivo e mirato di nuocere al lavoratore nei confronti del quale tali condotte vengono attuate e che venga dimostrato, in particolare, che la condotta denunciata sia causalmente collegata alla malattia insorta del lavoratore. (Trib. Milano 6/4/2006, Giud. Peragallo, in ADL 2007, con nota di Mariele Cottone, "Danno da mobbing: nesso di causalità e oneri probatori", 561)
  • Può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque, mobbing, anche in presenza di atti di per sè legittimi cosicchè non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinchè ciò avvenga è necessario che le diverse condotte, alcune o tutte di per sè legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato. (Cass. sez. VI pen. 8/3/2006 n. 31413, Pres. Legnasi Rel. Rotundo, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Anna Piovesana, 39)
  • L’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (c.d. mobbing) – che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificatamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito impugnata che, con congrua motivazione, si era attenuta a tali criteri escludendo la configurabilità, in capo al datore di lavoro, di un disegno persecutorio realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal lavoratore come vessatori). (Cass. 6/3/2006 n. 4774, Pres. Mercurio Rel. Miani Canevari, in Lav. Nella giur. 2006, 818)
  • Ciò che distingue il mobbing dalle mere situazioni di conflittualità interpersonali che caratterizzano qualsiasi ambiente di lavoro è la sistematicità dei comportamenti vessatori e il reiterarsi nel tempo nonché l’unitaria e intenzionale finalizzazione di tali comportamenti allo svilimento della professionalità del lavoratore e alla mortificazione della sua dignità. (Trib. Milano 4/1/2006, Est. Vitali, in D&L 2006, 486)
  • Al lavoratore vittima di accertati episodi di mobbing va risarcito il danno biologico individuato nella lesione psico-fisica della persona (nella fattispecie, è stata riconosciuta una inabilità temporanea del 25% e il danno è stato liquidato in base alle tabelle del Tribunale di Milano). (Trib. Milano 4/1/2006, Est. Vitali, in D&L 2006, 486)
  • È noto che per mobbing si intende un comportamento, reiterato nel tempo, da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a isolarla e respingerla dall’ambiente di lavoro, con conseguenze negative dal punto di vista sia psichico sia fisico. Il c.d. bossing (o mobbing verticale) è la vessazione da parte di un superiore gerarchico del lavoratore, di solito utilizzata per ridurre il personale, ringiovanire o riorganizzare uffici o reparti. Gli atteggiamenti tipici del mobbing individuati dalla psicologia del lavoro come idonei a colpire il lavoratore menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso sono, a parte le situazioni scolastiche e paradigmatiche della reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari, sottrazioni di benefits o vantaggi precedentemente attribuiti, che devono presentarsi con carattere di ripetitività e di continuità nel tempo. (Trib. Milano 6/5/2005, Est. Porcelli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 327)
  • Qualora il lavoratore agisca per il risarcimento del danno da mobbing denunciando la violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro (nella specie: mutamento di mansioni, trasferimento, assegnazione a locale insalubre; privazione dei riposi ecc.) deve ritenersi proposta un'azione per responsabilità contrattuale in quanto la tutela invocata attiene a diritti soggettivi derivanti direttamente dal rapporto di lavoro, indipendentemente dalla natura dei danni subiti. Qualora un comportamento mobbizzante venga attuato non mediante meri comportamenti materiali, ma mediante atti di gestione del rapporto, si realizza un'ipotesi non di illecito permanente, ma di illeciti istantanei con effetti permanenti, ancorchè l'evento dannoso si protragga autonomamente. Conseguentemente, nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico, la giurisdizione deve essere determinata avendo riguardo alla data di compimento dei singoli atti lesivi (nella specie è stata affermata la giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di atti riferiti ad epoca antecedente il 30/6/98). (Cass. 4/5/2004 n. 8438, Pres. Giustiniani Est. Miani Canevari, in D&L 2004, 339)
  • Con l’espressione “mobbing” si intende una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotto con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile. Non è sufficiente ad integrare la fattispecie del “mobbing” l’allegazione e la prova – il relativo onere incombe sul lavoratore – di fatti che denotano esclusivamente la sussistenza di divergenze di vedute tra il lavoratore ed il suo superiore gerarchico. (Trib. Milano 26/4/2004 Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2004, 1308)
  • Dell’attività persecutoria posta in essere non orizzontalmente dai colleghi ma verticalmente dal direttore generale, risponde, in solido, il datore di lavoro che tale attività ha fatto sua, consentendola e non intervenendo affinchè fosse interrotta. Si è pertanto nell’ambito della generale responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., secondo cui il datore di lavoro deve tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. (Corte d’appello Torino 21/4/2004, Pres. Peyron Est. Ramella Trafighet, in Lav. nella giur. 2005, 49, con commento di Roberta Nunin)
  • I connotati istituzionali del mobbing escludono di poter procedere disciplinarmente per violazione dei doveri di fedeltà e collaborazione nei confronti del lavoratore che si sia limitato a denunciare alla sola dirigenza dell’impresa comportamenti mobbizzanti ai propri danni non supportati dalle indagini introaziendali, in quanto la fattispecie mobbing presuppone strutturalmente il comportamento di denuncia. (Trib. Modena 12/2/2004, Est. Stanzani, in Lav. nella giur. 2004, con commento di Francesca Marinelli)
  • Il mobbing che abbia inciso sulla salute psichica del lavoratore provoca un danno biologico da liquidarsi in via equitativa. (Trib. Campobasso 16/1/2004, Est. Valle, in D&L 2004, 107)
  • E' costituzionalmente illegittima la legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 recante disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro. Alla Regione non è precluso legiferare-nelle materie di competenza concorrente -anche in assenza di una specifica disciplina statale contenente i principi fondamentali di un determinato fenomeno, ma ciò può esser fatto in via provvisoria, senza tener conto dei limiti desumibili dall'ordinamento. Con la legge in questione (dovendosi ritenere ammissibile l'impugnazione dell'intera legge-e non delle singole norme-in quanto connotata dalla denuncia della definizione dei comportamenti costituenti mobbing, intorno alla quale ruotano tutte le altre disposizioni) la Regione , qualificando, come mobbing una serie di fattispecie già note all'ordinamento sotto molteplici aspetti, non ha compiuto una mera ricognizione del fenomeno, per fini di studi o prevenzione, ma-attraverso la previsione delle attività dei centri anti-mobbing-ha creato potenziali interferenze con le aree del rapporto di lavoro privato e pubblico (con riferimento alla Pa ed agli Enti pubblici nazionali) ed ha inciso su fondamentali aspetti della tutela della salute e della tutela e sicurezza del lavoro. (Corte Cost. 10/12/2003 n. 359, Pres. Chieppa Rel. Amirante, in Dir. e prat. lav. 2004, 358)
  • Si è in presenza di un comportamento qualificabile come mobbing quando le vessazioni psicologiche inflitte alla vittima nell'ambiente di lavoro siano idonee a ledere i beni della persona (quali la salute e la dignità umana) e siano attuate in modo duraturo e reiterato; costituisce mobbing la sottoposizione di una lavoratrice per vasi mesi a controlli esasperati della sua attività di lavoro, ad una serie di contestazioni e sanzioni disciplinari conseguenti ad episodi di inesistente o scarsissima rilevanza disciplinare, nonché a frequenti aggressioni verbali consumate di fronte a terzi. In ipotesi di mobbing, stante la natura anche contrattuale dell'illecito, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione dell'integrità psicofisica e della dignità del lavoratore, mentre grava sul lavoratore l'onere di provare sia la lesione sia il nesso di causalità tra l'evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa. In ipotesi di mobbing, ai fini del raggiungimento della prova del nesso di causalità tra la patologia del lavoratore e le condizioni dell'ambiente di lavoro è sufficiente che l'evento consegua dalla causa in termini di altra probabilità. Una lettura costituzionalmente orientata del sistema di responsabilità civile alla luce degli artt. 2 e 29 Cost. consente di individuare in ipotesi di mobbing un autonomo spazio per il danno non patrimoniale inteso come danno esistenziale che si aggiunge al danno biologico in senso stretto ove provato, ovvero costituisce da solo l'ambito riparatorio, qualora a carico della vittima non sia ravvisabile l'insorgenza di una psicopatologia apprezzabile sotto il profilo clinico, ma solo una lesione della dignità professionale. (Trib. Milano 28/2/2003, Est. Vitali, in D&L 2003, 655)
  • La legge tutela il diritto del lavoratore a non essere dequalificato e a svolgere effettivamente le mansioni formalmente spettanti; nel caso però non si è in presenza solo di una dequalificazione, ma di un comportamento vessatorio ed illecito nei confronti della ricorrente, che è vittima non di mero mobbing ma di vero e proprio bossing aziendale ad opera di un dirigente a lei sovraordinato che opera contravvenendo alle disposizioni del preposto della Direzione del lavoro. A fronte di tale situazione, l'amministrazione - che sola è parte del rapporto di lavoro con la ricorrente - ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile all'interno dell'ufficio, e di evitare un'ulteriore lesione della personalità fisica e morale della lavoratrice: correttamente, allora, l'azione è incardinata nei confronti del datore di lavoro, titolare dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. nei confronti dei dipendenti e responsabile in quanto tale anche del comportamento vessatori ed illecito dei suoi dipendenti nei confronti di altri (ex artt. 1228 e 2049 c.c.). non occorre per converso che del giudizio sia parte il dirigente in questione, che non è litisconsorte necessario nel rapporto di lavoro dedotto in giudizio, e nei confronti del quale la ricorrente può azionare - se lo ritiene - altri rimedi civilistici autonomi rispetto all'azione cautelare spiegata in questo giudizio. Da ciò l'esigenza di provvedimenti che valgano ad impedire al detto dirigente qualsiasi azione nei confronti della ricorrente, e ad assicurare, per quanto possibile, che la stessa possa ritornare in servizio dallo stato di malattia senza peggiorare le proprie condizioni di salute e senza subire lesioni permanenti della propria sfera psico-fisica. Ciò si traduce inevitabilmente in una compressione dei poteri del dirigenti del servizio, ma si tratta di una situazione necessitata dall'esigenza di prevenire abuso dei poteri medesimi e di evitare l'incidenza lesiva degli stessi sulla persona della dipendente. Si tratta invero di interferenze del potere giudiziario nella sfera organizzativa dell'amministrazione, e tuttavia di provvedimenti giurisdizionali consentiti nell'assetto normativo seguente al decreto legislativo n. 29/93 (come modificato dai decreti legislativi n. 80/98 e n. 387/98), atteso che a seguito della cosiddetta seconda privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego, la pubblica amministrazione agisce "con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro", e che il giudice ordinario "può adottare nei confronti dell'amministrazione tutti i provvedimenti richiesti dalla natura dei diritti tutelati" (Trib. Lecce 31/8/01 ordinanza, pres. Invitto, est. Buffa, in Lavoro e prev. oggi. 2001, pag. 1428)
  • Il mobbing aziendale, per cui potrebbe sussistere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro è collettivo e comprende l'insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo; inoltre deve essere posto con il dolo specifico quale volontà di nuocere, o infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini dell'allontanamento del mobbizzato dall'impresa (Trib. Como 22/5/2001, pres. e est. Fargnoli, in Lavoro giur. 2002, pag. 73, con nota di Ege, "Mobbing" aziendale e collettivo, o molestia; in Orient. giur. lav. 2001, pag. 277, con nota di Quaranta, Un'altra pronuncia sul mobbing)
  • Non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. "mobbing"), qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all'organizzazione produttiva (Trib. Milano 16/11/00, est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 962).
  • Non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad una allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso (c.d. "mobbing" ), qualora l'assenza di sistematicità, la scarsità degli episodi, il loro oggettivo rapportarsi alla vita di tutti i giorni all'interno di una organizzazione produttiva, che è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano, escludano che i comportamenti lamentati possano essere considerati dolosi (Trib. Milano 20/5/00, pres. e est. Mannacio, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 958; in Dir. relazioni ind. 2001, pag. 285, con nota di Boscati, Mobbing e tutela del lavoratore: alla ricerca di una fattispecie vietata; in Lavoro giur. 2001, pag. 367, con nota di Nunin, "Mobbing": nodo critico è l'onere della prova)
  • Il lavoratore che sia vittima di comportamenti "persecutori" da parte del datore di lavoro ha diritto al risarcimento del cosiddetto "danno biologico" (ad es. disturbi al sistema nervoso), ma deve dimostrare l'esistenza di un nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e il pregiudizio alla propria salute (Cass. 2/5/00, n. 5491, in Lavoro giur. 2000, pag. 830)
  • Va risarcito, secondo le regole della responsabilità contrattuale, il danno alla salute (nella specie, infarto cardiaco) derivante al lavoratore dall'eccessivo impegno lavorativo dovuto alla sostituzione di un collega protrattasi per lungo tempo, allo svolgimento di lavoro straordinario e festivo ed alla rinuncia al godimento delle ferie. (Cass. 5/2/00 n. 1307, in Foro it. 2000, pag. 1554, con nota di Perrino)
  • Costituiscono mobbing le pratiche poste in essere nell'ambiente di lavoro per isolare il dipendente, nei casi più gravi, per espellerlo dall'azienda, con effetto lesivo sul suo equilibrio psichico. L'invito rivolto a una dipendente di rassegnare le dimissioni, l'assunzione durante la sua malattia di altra lavoratrice a tempo indeterminati, con attribuzione a quest'ultima delle mansioni già assegnate alla dipendente assente, nonché l'attribuzione, al rientro dalla malattia, di mansioni dequalificanti integrano una fattispecie di mobbing; in tal caso spetta alla dipendente il risarcimento del danno - da determinarsi in via equitativa - sia per la temporanea compromissione dell'integrità psico-fisica, sia per la dequalificazione subita (Trib. Torino 30 dicembre 1999, est. Ciocchetti, in D&L 2000, 378; in Lavoro giur. 2000, pag. 832, con nota di Nunin)
  • E' configurabile il mobbing in azienda nell'ipotesi in cui il dipendente sia oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori, volti ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo, con gravi menomazioni della sua capacità lavorativa e dell'integrità psichica. (Trib. Torino 11/12/99, est. Ciocchetti, in Foro it. 2000, pag. 1556)
  • Il datore di lavoro risponde ex art. 2087 c.c. per i danni psicologici subiti dai propri dipendenti e dovuti ai trattamenti incivili e ingiuriosi posti in essere da un suo preposto (fattispecie relativa ad un'impiegata costretta a svolgere le sue mansioni in uno spazio angusto, isolato dai colleghi di lavoro e adibito a deposito, e ripetutamente insultata dal capo reparto per le lamentele relative a tale trattamento) (Trib. Torino 16/11/99, est. Ciocchetti, in Dir. relazioni ind. 2000, pag. 385, con nota di Matto, Il mobbing nella prima ricostruzione giurisprudenziale)
  • Ove sia accertato che, per effetto dell’illecito demansionamento subito, sia derivato al lavoratore anche uno stato di disturbo psicologico clinicamente apprezzabile, compete a quest’ultimo anche il risarcimento del danno biologico temporaneo di natura psichica, a liquidarsi in base alle "tabelle" comunemente accettate (Pret. Milano 26/6/99, est. Frattin, in D&L 1999, 883)