In genere

  • L’istituto dell’impresa familiare ha carattere residuale e ricade in capo a chi ne asserisce la ricorrenza l’onere di provare che l’inserimento di un soggetto nell’organizzazione aziendale integri i presupposti di cui all’art. 230 bis c.c. (Trib. Milano 10/4/2014, Giud. Pecorelli, in Lav. nella giur. 2014, 931)
  • Ai fini del riconoscimento dell’istituto residuale dell’impresa familiare, occorre che concorrano due condizioni, ovvero che sia fornita la prova dell’espletamento da parte del partecipante di un’attività lavorativa continua, nel senso di una attività non saltuaria, bensì regolare e costante, anche se non necessariamente a tempo pieno; altresì, occorre la prova dell’accrescimento della produttività dell’impresa provocato dal lavoro del partecipante, necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi. Ne deriva che, in relazione ai singoli componenti della famiglia del titolare dell’impresa, è necessario, ai fini della loro sottoposizione agli obblighi assicurativi, dare la prova che l’attività spiegata nell’azienda sia continua e non occasionale e destinata all’accrescimento della produttività e degli utili dell’impresa stessa. (Cass. 30/5/2013 n. 13850, Pres. Vidiri Rel. Berrino, in Lav. nella giur. 2013, 842)
  • La prescrizione dei crediti derivanti dalla partecipazione all'impresa familiare è decennale in quanto deve escludersi che il diritto al mantenimento e alla partecipazione agli utili dell'impresa configuri una prestazione che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi, ai sensi dell'art. 2948 n. 4, c.c., salvo che non sia stato convenuto un patto di distribuzione periodica. (Cass. 27/9/2010 n. 20273, Pres. Vidiri Est. Curzio, in D&L 2010, 1139)
  • Perché il lavoro familiare sia idoneo a fondare il diritto di partecipazione alla comunione tacita familiare ai sensi dell'art. 230 bis c.c. è necessario che il lavoro prestato dal congiunto in seno alla famiglia si traduca in un'attività utile all'impresa e a essa sia funzionale e non si esaurisca nel reciproco dovere di collaborazione e contributo ai bisogni familiari. (Trib. Milano 31/5/2006 Est. Bianchini, in Lav. nella giur. 2007, 94)
  • Poichè non può ipotizzarsi un rapporto di parentela o di affinità, come è richiesto dall'art. 230 bis c.c., del lavoratore con una società, non è configurabile un'impresa familiare esercitabile in forma societaria. (Trib. Milano 31/5/2006, Est. Bianchini, in D&L 2006, con nota di Giuseppe Cordedda, "Lavoro in famiglia e partecipazione all'impresa familiare: due facce di due medaglie differenti", 782)
  • L'impresa familiare è istituto di carattere residuale e lo svolgimento, da parte del coniuge del titolare dell'impresa, di lavoro casalingo non è di per sè sufficiente a giustificare il riconoscimento al medesimo coniuge dei diritti derivanti dalla partecipazione all'impresa familiare; è infatti a tal fine necessario che ricorrando due condizioni, e cioè che sia fornita la prova sia dello svolgimento di un'attività di lavoro regolare e costante - anche se non necessariamente a tempo pieno - da parte del coniuge, sia dell'accrescimento della produttività dell'impresa procurato dal lavoro di quest'ultimo, in favore del quale potrà essere così determinata la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi dell'impresa allo stesso spettante. (Trib. Milano 31/5/2006, Est. Bianchini, in D&L 2006, con nota di Giuseppe Cordedda, "Lavoro in famiglia e partecipazione all'impresa familiare: due facce di due medaglie differenti", 782)
  • Atteso il carattere residuale dell’impresa familiare, ricade in capo a chi ne asserisca la ricorrenza l’onere di provare che l’inserimento continuativo e sistematico di un soggetto nell’ambito dell’organizzazione aziendale (documentato in forza di molteplici indicatori, quali la percezione di uno stipendio mensile, il rispetto dell’orario di lavoro, nonché la sottomissione alle direttive dell’imprenditore in riferimento alle assenze dal lavoro, alla fruizione delle ferie e alle scelte gestionali) integri i presupposti di cui all’art. 230 bis c.c. e non, piuttosto, della fattispecie del rapporto di lavoro subordinato. (Cass. 24/11/2005 n. 24700, Pres. Mileo Est. Capitanio, in Orient. Giur. Lav. 2005, 871)
  • Il carattere residuale dell’impresa familiare, quale risulta dall’incipit dell’art. 230 “bis” c.p.c., mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto – parente entro il terzo grado o affine entro il secondo – che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l’effetto di confinare in un’area limitata quella del lavoro familiare gratuito. Di conseguenza, ove un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, il giudice di merito dovrà valutare le risultanze di causa per distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare, escludendo comunque la causa gratuita dalla prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva, contraddittoriamente, escluso il lavoro subordinato e individuato una causa gratuita dell’attività di collaborazione all’impresa a fronte di un corrispettivo periodico per l’attività di servizio ai tavoli svolta dalla nuora). (Cass. 18/10/2005 n. 20157, Pres. Senese Rel. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2006, 804)
  • La comunione tacita familiare consiste in una struttura associativa, per l’esercizio di un’impresa in collaborazione reciproca fra vari membri della stessa famiglia, caratterizzata – oltre che dalla comunanza di mensa e di tetto, di lucri e di perdite – dalla formazione di un unico peculio, gestito senza particolari formalità od obbligo di rendiconto e destinato, indivisibilmente, a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare con la conseguenza che la prestazione di lavoro nell’azienda paterna non è, da sola, sufficiente, ad integrare una comunione tacita familiare, ove manchi la formazione di un unico peculio. (Cass. 8/10/2004 n. 20070, Pres. Ciciretti Rel. De Luca, in Lav. e prev. oggi 2005, 170)
  • Il coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall’art. 230 bis c.c. (al pari degli altri soggetti indicati dal terzo comma di tale articolo), anche se l’impresa sia esercitata in forma non individuale ma in società di fatto con terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230 bis c.c. nei limiti della quota societaria, atteso che la nozione di impresa familiare non comporta necessariamente l’esistenza di un soggetto imprenditoriale collettivo familiare, e che l’istituto ha natura residuale, venendo nel suo ambito regolati di diritti corrispondenti alle prestazioni svolte dal soggetto partecipante a favore del familiare che se ne avvale, anche quando questi utilizzi tale apporto per un’attività economicamente svolta quale socio di una società di fatto. (Cass. 23/9/2004 n. 19116, Pres. Senese Rel. Miani Canevari, in Lav. nella giur. 2005, 284)
  • La scrittura privata autenticata sulla base della quale il familiare ha diritto di partecipare al 49% degli utili dell’impresa familiare svolge – in via principale – la funzione fiscale che le è attribuita dall’art. 3, D.Lgs. n. 853/1984, convertito nella l. n. 17/1987, e – in via residuale – quella di integrare una presunzione probante la costituzione dell’impresa medesima e della quota di partecipazione, ma in nessun caso può, per sé medesima, esser prova della prestazione di lavoro del compartecipe e della quantità e qualità di quella prestazione. (Corte d’appello Roma 17/8/2004, Pres. Bronzini Rel. Coletta, in Lav. nella giur. 2005, 490)
  • Nelle controversie relative alla misura della partecipazione agli utili di un'impresa familiare può essere utilizzato, con valore di elemento presuntivo, l'atto di predeterminazione delle quote formato ai fini fiscali. (Cass. 17/6/2003 n. 9683, Pres. Mileo Est. Stile, in Foro it. 2003, parte prima, 2628)
  • Il diritto del familiare agli utili sorge solo nel momento in cui risulta esattamente adempiuta la prestazione lavorativa in favore dell'impresa. (Trib. Roma 13/12/2002, Est. Marrocco, in Lav. nella giur. 2003, 692)
  • La dedizione pressoché in esclusiva di uno dei genitori alla cura della casa ed alla educazione dei figli è di per sé insufficiente ad integrare il requisito della sua partecipazione all'impresa disciplinata dall'art. 230 bis c.c., in quanto coincide con l'attività oggetto di uno degli obblighi e doveri dei coniugi di cui agli artt. 143 e 147 c.c. In ipotesi del genere, viceversa, la partecipazione all'impresa di quel coniuge presuppone che l'attività di cura della casa e di educazione dei figli risulti strettamente correlata e finalizzata alla gestione dell'impresa, come espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell'ambito del consorzio domestico, in vista dell'attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni e servizi propri dell'impresa familiare. (Corte d'appello Milano 3/10/2002, Pres. Mannacio, Rel. De Angelis, in Lav. nella giur. 2003, 491)
  • E' configurabile un'impresa familiare nella collaborazione con un congiunto che svolge un'attività imprenditoriale in società di fatto con altri, applicandosi in tal caso la disciplina dettata dall'art. 230 bis c.c., nei limiti della quota societaria (Cass. 19/10/00, n. 13861, pres. Dell'Anno, est. De Matteis, in Foro it. 2001, pag.1226, con nota di Bucciante e in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1145; in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 414, con nota di Agostini, Sull'applicabilità dell'art. 230 bis c.c. al familiare del socio di fatto)
  • Al familiare che partecipa all’impresa di cui all’art. 230 bis c.c. competono i diritti previsti dalla norma in presenza di una prestazione di lavoro resa in via continuativa, anche se non necessariamente prevalente; in proposito è sufficiente la volontà degli interessati, segnalata da fatti concludenti, e non sono necessarie dichiarazioni ufficiali o altri requisiti di tipo formale (Pret. Milano 20/7/99, est. Mascarello, in D&L 1999, 867)
  • Ai fini del calcolo delle partecipazioni di cui all’art. 230 bis, 1° comma, c.c deve aversi riguardo solo alle prestazioni rese in favore dell’impresa familiare e alla loro misura (e non anche all’apporto alla conduzione del nucleo familiare) (Pret. Milano 20/7/99, est. Mascarello, in D&L 1999, 867)