Licenziamento disciplinare

Questione n. 1

Che cosa si intende per licenziamento disciplinare?

La giurisprudenza dominante considera sempre di natura disciplinare il licenziamento per giusta causa, con la precisazione che il licenziamento in esame è quello intimato a motivo di una condotta colpevole del lavoratore (in questi termini si è espressa fin dall’inizio: Corte Cost. 30/11/82 n. 204). Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione a sezioni unite, secondo cui rimane assoggettato alla disciplina dettata dai primi tre commi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori anche il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo fondato sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi scaturenti dal rapporto. In altre parole, il licenziamento è disciplinare tutte le volte in cui il datore di lavoro licenzi il lavoratore per un inadempimento da lui commesso, e ciò indipendentemente dal fatto che il codice disciplinare applicato in azienda preveda o meno questa sanzione.

Conseguentemente, il datore di lavoro che intenda licenziare un proprio dipendente per inadempimento deve esperire la procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Così, sinteticamente, il datore di lavoro dovrà contestare il fatto, invitare il lavoratore a rendere le proprie giustificazioni e, infine, attendere cinque giorni dalla contestazione prima di adottare la sanzione. Il mancato esperimento di tale procedura costituisce un vizio che comporta l’illegittimità del licenziamento.

 

Questione n. 2

Quando un inadempimento del lavoratore costituisce un fatto così grave da giustificare il licenziamento?

La maggior parte dei contratti collettivi indica espressamente gli inadempimenti del lavoratore che costituiscono motivo di licenziamento. La giurisprudenza, tuttavia, ritiene che per l’esercizio legittimo del potere di licenziamento per giusta causa non è necessaria l’inclusione dei fatti contestati nel codice disciplinare, poiché la nozione di giusta causa è di origine legale.

Indipendentemente dalla qualificazione ad opera dei contratti collettivi del comportamento contestato, il Giudice chiamato a verificare la legittimità di un licenziamento disciplinare è tenuto a valutare l’esistenza di una giusta proporzione tra addebito e sanzione adottata.

La casistica sul punto è quanto mai varia, tuttavia qualche esempio potrà essere utile.

Il protrarsi dell’assenza ingiustificata per un periodo superiore a quello contrattualmente previsto non è sufficiente a configurare una giusta causa di licenziamento, dovendo il giudice tener conto della validità delle giustificazioni addotte: ne consegue l’illegittimità del licenziamento intimato per avere il lavoratore omesso di giustificare l’assenza causata da carcerazione preventiva (Cass. 23/1/86 n. 433); è illegittimo il licenziamento comminato per avere il dipendente svolto prestazioni lavorative a favore di terzi durante l’assenza per malattia quando risulti certo che in nessun modo tali prestazioni possono avere compromesso la guarigione o aggravato lo stato morboso (Trib. Milano 31/5/88); prestazioni di lavoro occasionali e sporadiche dirette a conseguire modesti introiti nel periodo di fruizione del trattamento di cassa integrazione guadagni non sono tali da far venir meno il rapporto fiduciario e quindi non consentono il licenziamento del dipendente per giusta causa (Trib. Nocera Inferiore 16/11/85); l’utilizzazione sporadica della autovettura dell’azienda o biglietti d’aereo per fini personali non costituisce giustificato motivo di licenziamento quando, secondo la esclusiva valutazione del giudice di merito, si tratti di comportamenti tollerati dall’azienda (Cass. 4/5/85 n. 2815); non ogni fatto configurato dalla legge penale come reato costituisce giusta causa di licenziamento, dovendosi, invece, valutare, caso per caso, se la sanzione civile del licenziamento è proporzionata alla gravità del fatto (Cass. 19/12/84 n. 476).

Infine, sempre in via generale è stata affermata l’irrilevanza sotto il profilo disciplinare di comportamenti del lavoratore che, pur essendo in qualche misura occasionati dal rapporto di lavoro, non siano, tuttavia, direttamente o indirettamente riferibili al rapporto di lavoro (Trib Milano 16/2/88). In quest’ottica è stata affermata l’illegittimità del licenziamento disciplinare adottato nei confronti di un dipendente che intrattiene una relazione adulterina esternamente all’azienda e fuori dall’orario di lavoro (Trib Torino 28/10/85).

 

Questione 3

Quali tutele vengono accordate al lavoratore in caso di licenziamento disciplinare illegittimo?

La materia delle tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo è stata oggetto di modifiche radicali, in primo luogo a opera della legge 92/2012 (c.d. riforma Fornero) e, successivamente, del decreto legislativo 23/2015, attuativo della legge delega 183/2015 (c.d. Jobs Act); il risultato di tali riforme, accomunate dal progressivo abbandono del meccanismo sanzionatorio della reintegrazione nel posto di lavoro a favore del versamento di una mera indennità risarcitoria al lavoratore licenziato, è la previsione di due diversi regimi di tutela, la cui applicabilità dipende dalla data di assunzione del lavoratore.

In particolare, ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 – data di entrata in vigore del d.lgs. 23/2015 – si applicano le garanzie previste dall’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge 92/2012, e l’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della Legge 108/1990.

Dette norme distinguono a seconda che il licenziamento sia stato intimato nell’ambito di un’impresa che abbia sino a quindici dipendenti oppure nell’ambito di un’impresa che ne abbia almeno sedici.

Nel primo caso, e a prescindere dal vizio individuato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro a riassumere il dipendente entro il termine di tre giorni, oppure, in mancanza, a versargli un risarcimento, la cui misura viene determinata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità (tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della condizione delle parti).

Nel secondo caso, invece, il lavoratore gode delle tutele stabilite dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale, a seguito delle modifiche introdotte dalla riforma del 2012, prevede che:

  1. il giudice, se accerta che il fatto contestato al lavoratore è insussistente, oppure rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa, ordina la reintegrazione nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un  indennizzo commisurato alla retribuzione globale di fatto dovuta dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, con il limite di 12 mensilità. E’ poi dovuto il versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo intercorrente dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione;
  2. fuori da queste ipotesi, il giudice, se ritiene che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotta dal datore di lavoro, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria in una misura compresa fra 12 e 24 mensilità della retribuzione globale di fatto, tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti, della dimensione dell’attività economica e del comportamento e condizioni delle parti;
  3. nel caso in cui il datore di lavoro non abbia rispettato la procedura prevista dall’art. 7 della legge 300/1970, infine, il giudice dichiara il licenziamento inefficace e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria compresa fra 6 e 12 mensilità della retribuzione globale di fatto e parametrata in base alla gravità del vizio formale o procedurale commesso.

Ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti si applicano, invece, le tutele previste dal decreto legislativo 23/2015.

Il decreto legislativo 23/2015 continua a prevedere regimi di tutela differenti a seconda che il licenziamento illegittimo riguardi dipendenti di imprese che superano le soglie numeriche fissate dall’art. 18 della legge 300/1970, ovvero lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono dette soglie. Rispetto alla disciplina previgente, tuttavia, la riforma del 2015 si segnala per una significativa diminuzione delle ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato.

Per quanto concerne le imprese di maggiori dimensioni, la nuova disciplina prevede che, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, la reintegrazione del lavoratore può essere disposta solo allorché sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2). Per espressa indicazione del legislatore, deve in ogni caso rimanere esclusa “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

In questa ipotesi, il datore di lavoro è inoltre condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, e il dipendente ha diritto di percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale indennità va dedotto sia quanto il lavoratore ha eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum), sia le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). In ogni caso, l’indennità non può superare le 12 mensilità.

In tutti gli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa illegittimo, il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 6 e le 36 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).

Più in particolare, l’art. 3, co. 1, del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, allorché il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 2 mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).

In ogni caso, l’indennità non potrà essere inferiore a 6 mensilità, né potrà superare le 36 mensilità.

Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.

In questo caso, però, l’indennità risulta dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.

Per quanto riguarda i datori di lavoro che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970, l’art. 9 del d.lgs. 23/2015 prevede l’ applicazione del medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica è ridotta.

Questo significa che, in caso di licenziamento per giusta causa, se il giudice accerta l’illegittimità del provvedimento espulsivo, il lavoratore ha diritto esclusivamente a un indennizzo economico (non assoggettato a contribuzione previdenziale) di importo pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio; in ogni caso, l’indennizzo non può essere inferiore a 3 mensilità, né può superare le 6 mensilità.

 In caso di licenziamento illegittimo per violazione della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300 del 1970, al lavoratore spetta, invece, un’indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) pari a mezza mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 1 mensilità e un limite massimo di 6 mensilità.

Tuttavia, con la recente e nota sentenza n. 194/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 co. 1 nella parte in cui determina rigidamente l’indennità dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato. La Corte Costituzionale ha infatti affermato che tale modalità di calcolo, legata unicamente all’anzianità aziendale, è illegittima in quanto “prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente” e, pertanto, non può ritenersi rispettosa degli artt. 4 co. 1 e 35 co. 1 Cost.. Conseguentemente, la stessa Corte ha precisato che, al fine di quantificare l’indennità dovuta nel caso contrato, il giudice deve far riferimento ai criteri ex art. 8 L. 604/66 e art. 18 c. 5 S.L. (non solo l’anzianità di servizio, ma anche il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti).

La pronuncia della Corte Costituzionale ha certamente rilievo anche con riferimento alle imprese che occupano meno di 15 dipendenti, alle quali l’art. 3 co. 1 è applicabile in forza del richiamo diretto operato dall’articolo 9. Infatti, la norma da ultimo richiamata non dispone una disciplina autonoma della sanzione applicabile ai licenziamenti illegittimamente intimati dai datori di lavoro che non raggiungo le soglie occupazionali ex art. 18 S.L.. , compiendo un mero richiamo dell’art. 3 c. 1, prevedendo che l’importo ivi previsto viene dimezzato e non può superare il limite di 6 mensilità.