Cig

Questione n. 1

Quando può essere disposta la cassa integrazione?

La disciplina dei trattamenti di integrazione salariale è stata oggetto di recente revisione da parte del legislatore con il d.lgs. 148/2015, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act, il quale stabilisce anzitutto che detti trattamenti possono essere concessi ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, ivi compresi gli apprendisti con contratto di apprendistato professionalizzante, con esclusione dei dirigenti e dei lavoratori a domicilio.

La legge precisa altresì che i lavoratori beneficiari devono possedere, presso l’unità per la quale è richiesto il trattamento, un’anzianità di lavoro effettivo di almeno 90 giorni alla data di presentazione della relativa domanda di concessione (prima della riforma, il requisito dell’anzianità lavorativa era previsto solo per la cassa integrazione guadagni straordinaria). Tale requisito non è necessario allorché la domanda riguardi trattamenti ordinari di integrazione salariale per eventi oggettivamente non evitabili.

Al pari della disciplina previgente, l’attuale normativa prevede due tipi di cassa integrazione, quella ordinaria e quella straordinaria.

La prima riguarda i lavoratori di varie tipologie di impresa (puntualmente indicate all’art. 10 del d.lgs. 148/15) che siano sospesi dal lavoro ovvero effettuino prestazioni di lavoro a orario ridotto nei casi (i) di situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali, e (ii) di situazioni temporanee di mercato.

In presenza di un caso come quelli indicati, il datore di lavoro può decidere di sospendere in tutto o in parte l’attività lavorativa, rivolgendo un'istanza all'INPS al fine di ottenere l’ammissione alla cassa integrazione ordinaria.

Quest’ultima può essere concessa per un periodo massimo di 13 settimane continuative, prorogabili trimestralmente fino a 52 settimane. Nel caso in cui l’impresa abbia fruito dell’istituto per 52 settimane consecutive, la stessa potrà proporre una nuova domanda, per la medesima unità produttiva, solo dopo che sia trascorso un periodo di almeno 52 settimane di normale attività lavorativa.

In ogni caso, la sospensione, anche se non consecutiva, non può superare complessivamente la durata di 52 settimane in un biennio mobile (ciò significa che in ogni momento, andando a ritroso di 103 settimane, occorre che sia verificata la condizione del non superamento del limite complessivo di 52 settimane di prestazioni).

I suddetti limiti di durata non trovano applicazione nel caso di interventi determinati da eventi oggettivamente non evitabili, fatta eccezione per i trattamenti richiesti da imprese di determinati settori (es. imprese edili e quelle esercenti attività di escavazione).

È altresì previsto che non possano essere autorizzate ore di integrazione salariale ordinaria che eccedano il limite di un terzo delle ore ordinarie lavorabili nel biennio mobile, con riferimento a tutti i lavoratori dell’unità produttiva mediamente occupati nel semestre precedente la domanda di concessione dell’integrazione salariale.

La cassa integrazione salariale straordinaria viene invece concessa ai lavoratori impiegati presso le imprese operanti nei settori elencati all’art. 20 del d.lgs. 148/15 (norma che indica altresì diversi limiti dimensionali a seconda del settore in cui opera l’impresa interessata) nei casi di:

  • riorganizzazione aziendale;
  • crisi aziendale, con esclusione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo di essa (la scelta del legislatore di escludere esplicitamente l’ipotesi della cessazione dell’attività di impresa è una novità della riforma del 2015, dettata dalla volontà del legislatore di limitare il ricorso alla cassa integrazione alle sole ipotesi in cui si è ancora in presenza di un rapporto di lavoro);
  • contratto di solidarietà.

Qualora ricorra un’ipotesi come quelle sopra descritte, dunque, il datore di lavoro può sospendere in tutto o in parte l’attività lavorativa, previa autorizzazione del ministro del lavoro.

La sospensione straordinaria è soggetta a limiti temporali che variano in base alla causale che l’ha determinata:

  • in caso di riorganizzazione aziendale, il trattamento può avere una durata massima di 24 mesi, anche continuativi, in un quinquennio mobile;
  • in caso di crisi aziendale, è fissata una durata massima di 12 mesi, anche continuativi (in tal caso, una nuova autorizzazione può essere concessa solo una volta decorso un periodo pari a due terzi di quello relativo alla precedente autorizzazione);
  • nell’ipotesi del contratto di solidarietà, è fissata una durata massima di 24 mesi, anche continuativi, in un quinquennio mobile, con possibilità di cumulo con interventi per altra causale fino a un massimo di 36 mesi.

La riforma del 2015 ha inoltre stabilito che, per le ipotesi di riorganizzazione e crisi aziendale, le sospensioni del lavoro non possono superare il limite dell’80% delle ore lavorabili nell’unità produttiva nell’arco di tempo di cui al programma autorizzato.

 

Questione n. 2

Cosa può fare il lavoratore che ritenga di essere stato illegittimamente sospeso in CIG?

L’ordinamento giuridico consente al datore di lavoro (che si trovi in particolari situazioni di crisi o abbia la necessità di procedere a ristrutturazioni o riorganizzazioni) di sospendere in tutto o in parte i propri dipendenti dal lavoro. Tuttavia, al contempo, questo potere viene disciplinato e limitato dalla legge. Pertanto, la sospensione in CIG disposta al di fuori di questi limiti è illegittima, e il lavoratore può ricorrere al Giudice del lavoro al fine di ottenere la riammissione al lavoro, nonché il risarcimento del danno (che, normalmente, consisterà nella differenza tra la retribuzione che egli avrebbe percepito se non fosse stato sospeso e l’indennità di CIG percepita durante la sospensione).

A tale riguardo, bisogna ricordare che il potere di sospendere i propri dipendenti in CIG incontra innanzi tutto limiti di tipo formale. Infatti, la legge prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di attivare preventivamente una procedura di informazione e (a richiesta) di consultazione con il sindacato. Questa procedura è analiticamente disciplinata dalla legge soprattutto nei casi di CIG straordinaria.

Il descritto obbligo di informare e, eventualmente, di trattare con il sindacato ha evidentemente lo scopo di garantire che la sospensione dei lavoratori sia trasparente e corretta, con la conseguenza che eventuali violazioni della procedura sindacale rilevino, oltre che sul piano formale, anche su quello sostanziale. Infatti, l’ordinamento ha affidato il controllo in merito alla regolare sospensione dal lavoro – non potendolo assegnare a tutti i lavoratori – al sindacato, che dunque lo esercita per conto dei lavoratori: è allora inevitabile che una violazione della procedura sindacale violi al contempo i diritti del sindacato, ma anche quelli del singolo lavoratore sospeso in CIG. Sulla scorta di simili argomentazioni, la giurisprudenza ha quindi ritenuto che le violazioni della procedura sindacale possano essere fatte valere in giudizio anche dal singolo lavoratore. Inoltre, se la causa è promossa dal sindacato (per esempio in un giudizio per comportamento antisindacale), la conseguenza dell’accertata violazione della procedura comporta inevitabilmente la riammissione in servizio dei lavoratori sospesi, anche se gli stessi non erano parte di quella causa.

Con riferimento ai vizi procedurali di cui si è detto, dunque, il lavoratore (ma anche il sindacato) potrebbe per esempio lamentare l’omissione della procedura, oppure il fatto che non siano state rese tutte le informazioni previste dalla legge, o che le stesse siano statefornite in maniera generica o falsa, o ancora che il datore di lavoro non ha dato seguito alla richiesta del sindacato di trattare.

Vi sono però altri limiti che il datore di lavoro deve rispettare e che, in caso contrario, legittimano il ricorso al giudice da parte del lavoratore. Innanzi tutto, si deve ricordare che il datore di lavoro può ricorrere alla CIG solo in presenza di situazioni di crisi o di ristrutturazione – riorganizzazione previste dalla legge. Sotto questo profilo, dunque, il lavoratore potrebbe per esempio contestare che la causa della sospensione, enunciata dal suo datore di lavoro, non rientra tra quelle previste dalla legge, oppure che quella situazione non corrisponde al vero. Infine, il datore di lavoro deve scegliere il personale da sospendere in CIG utilizzando criteri oggettivi e coerenti con la causa della sospensione: il lavoratore potrebbe quindi lamentare di essere stato scelto sulla scorta di criteri che non corrispondono a tali caratteristiche.

 

Questione n. 3

Con quali criteri devono essere scelti i lavoratori da sospendere in CIG?

Poiché la riduzione dell’attività lavorativa, normalmente, non coinvolge tutti i dipendenti, è quasi sempre necessario che il datore di lavoro compia una scelta, decidendo chi sospendere e chi no. Naturalmente, non può trattarsi di una decisione arbitraria, ma deve sempre essere fondata su valutazioni oggettive e verificabili dal giudice.

Da questo punto di vista, la legge dice solamente che i criteri di scelta devono essere preventivamente comunicati alle organizzazioni sindacali e, su loro richiesta, devono costituire oggetto di esame congiunto. Questo evidentemente basta a garantire che il datore di lavorodebba stabilire i criteri di scelta in via preventiva rispetto alle sospensioni; inoltre, la circostanza che i criteri siano oggetto di preventiva informazione comporta l’impossibilità del datore di lavoro di modificarli successivamente in via unilaterale (ciò potrebbe accadere solo nel corso dell’eventuale trattativa con il sindacato e solo previo accordo con questo); infine, il fatto che gli stessi siano oggetto, a richiesta, di esame con il sindacato dovrebbe garantire in ordine alla loro oggettività.

In ogni caso, come si vede, la legge nulla dice in ordine ai criteri che possono essere concretamente adottati. A questo fine interviene peraltro la giurisprudenza, che ha elaborato una serie di principi ormai consolidati.

In primo luogo, si esclude che i criteri di scelta del personale da sospendere in CIG siano necessariamente gli stessi previsti esplicitamente dalla legge per la mobilità: infatti, i due istituti hanno finalità del tutto diverse, con conseguente impossibilità di applicare analogicamente all’uno le norme dell’altro.

È altrettanto pacifico che i criteri di scelta debbano essere oggettivi, razionali e coerenti con il motivo che ha causato la sospensione dal lavoro. Da questo punto di vista, la giurisprudenza ha individuato due limiti al potere del datore di lavoro di scegliere il personale da sospendere. Più precisamente, il datore di lavoro deve innanzi tutto rispettare limiti interni: ciò significa che il datore di lavoro, dopo aver chiesto l’intervento della CIG per una determinata causa (di crisi o di ristrutturazione o altro) deve applicare criteri che siano coerenti conessa. Per esempio, se la CIGS si fonda sulla riorganizzazione di un determinato reparto, sarebbe illegittimo il criterio di scelta che comportasse la sospensione di un lavoratore non appartenente a quel reparto. Ciò potrebbe anche avvenire mediante trasferimenti mirati e precedenti al provvedimento di sospensione.

In secondo luogo, il datore di lavoro deve rispettare limiti esterni, derivanti dall’applicazione in concreto dei generali principi di correttezza e buona fede, nonché dal divieto di non discriminazione. Sotto questo profilo, sarebbero per esempio illegittimi i criteri che implicassero scelte e valutazioni di tipo soggettivo o che discriminassero i lavoratori – per esempio – in considerazione del sesso o dell’appartenenza sindacale.

 

Questione n. 4

In cosa consiste il trattamento di integrazione salariale?

Com’è noto, la cassa integrazione (sia essa ordinaria o straordinaria) comporta la sospensione totale o parziale dell’attività lavorativa, con esonero del datore di lavoro dall’obbligo di corrispondere la retribuzione. Ciò che si è appena detto rappresenta una eccezione alle regole comuni che, piuttosto, dispongono la permanenza dell’obbligo retributivo in capo al datore di lavoro che rifiuti senza giusta causa di ricevere la prestazione lavorativa. Invece, nei casi di crisi o di ristrutturazione che legittimino il ricorso alla cassa integrazione, il legislatore ha ritenuto di sostenere temporaneamente le imprese, esonerandole dal pagamento della retribuzione e dal versamento dei contributi nei confronti dei lavoratori sospesi in cassa integrazione.

Il meccanismo sopra brevemente descritto non avviene però a totale detrimento dei lavoratori, che – se pur perdono la retribuzione –ottengono però dall’Inps un indennizzo, denominato integrazione salariale. Più precisamente, nel caso di cassa integrazione ordinaria l’integrazione è pari all'80% della retribuzione perduta per effetto della sospensione dal lavoro, anche se dopo i primi 6 mesi di sospensione l’indennità non può superare un tetto massimo fissato dalla legge. Nel caso invece di cassa integrazione straordinaria, l’integrazione è sempre pari all’80% della retribuzione perduta, e sempre nel limite di un tetto massimo previsto dalla legge.

Quanto invece ai contributi previdenziali e assistenziali, la legge prevede (sia nel caso di cassa integrazione ordinaria che in quello di cassa integrazione speciale) l’accreditamento di contributi figurativi. Ciò significa che, anche a fronte del mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, il lavoratore non risulta scoperto, ai fini contributivi, durante il periodo di cassa integrazione che, dunque, anche in assenza dei contributi reali, sarà utile in particolare per la maturazione della pensione.



Questione 5

Quali sono le conseguenze derivanti dalla violazione della procedura imposta dalla legge nel caso di CIG?

Una sentenza della Corte di Cassazione (n. 2882 del 18/3/98) ha fornito al riguardo importanti chiarimenti.

Il datore di lavoro, quando intende sospendere propri dipendenti in CIG, deve preventivamente comunicare alle RSA, nonché alle organizzazioni sindacali di categoria più rappresentative operanti nella provincia, le cause di sospensione, l’entità e la durata prevedibile della stessa, nonché il numero dei lavoratori interessati. Ricevuta la comunicazione, le organizzazioni sindacali possono eventualmente chiedere un esame congiunto. Il contenuto dell’informazione è stato ampliato dalla L. 223/91: il datore di lavoro deve infatti comunicare anche i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, nonché le modalità della rotazione. E’ anche previsto che il datore di lavoro, se ritiene per ragioni tecnico – organizzative di non adottare meccanismi di rotazione, debba indicarne le ragioni nel programma da predisporre all’atto della presentazione della domanda di CIG.

L’interpretazione di questa parte della legge 223 non era univoca. E’ pacifico che la violazione delle informazioni introdotte dalla L. 223 costituisca condotta antisindacale. Tuttavia, questo rimedio non sempre è sufficiente, dal momento che molto spesso il sindacato dà atto, contro al vero, che la procedura prevista dalla legge è stata esperita o, comunque, non reagisce alle violazioni procedurali del datore di lavoro. Pertanto, mancando il sindacato che agisca in giudizio per comportamento antisindacale, il singolo lavoratore sospeso in CIG rimane senza tutela. Peraltro, non tutti i giudici ritenevano che la violazione di quegli obblighi di informazione costituisse anche un motivo di illegittimità delle singole sospensioni in CIG: infatti, la legge non prevede esplicitamente la sanzione della illegittimità della sospensione in CIG per il caso in esame, e ciò a differenza di quanto accade per la messa in mobilità, che è illegittima, per espressa previsione di legge, nel caso di violazioni procedurali. A fronte di questo orientamento giurisprudenziale, dunque, la tutela del singolo lavoratore presupponeva una causa promossa dal sindacato che, come si è detto, non sempre reagiva contro le violazioni procedurali.

La sentenza della Cassazione sopra citata riapre la questione: è stato infatti ritenuto che la mancata comunicazione dei motivi di scelta leda anche il diritto dei singoli lavoratori che, dunque, potranno agire in giudizio per ottenere il riconoscimento della illegittimità della sospensione in CIG e la reintegrazione in servizio. A questa conclusione non osta il fatto che la legge non preveda esplicitamente la sanzione della illegittimità. Infatti il datore di lavoro, se ha il potere di licenziare, non ha il potere di rifiutare la prestazione lavorativa. Ciò è possibile, mediante la sospensione in CIG, solo perché la legge consente, in alcuni casi e a determinate condizioni, di derogare al principio generale; pertanto, tale deroga è ammessa solo nei limiti indicati dalla legge; al di fuori di questi limiti, torna a valere il principio generale e la sospensione in CIG diventa illegittima. Pertanto, non è necessario prevedere specificamente la sanzione della illegittimità, che discende invece dai principi generali.