Processo del lavoro

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Questione 1

Le cause di lavoro sono sottoposte a specifici termini di decadenza?

 

A seguito della modica dell’art. 6 della Legge 15 luglio 1966, n. 604, l’impugnazione del licenziamento è inefficace se non è seguita entro il termine di 180 giorni (270 per i licenziamenti intimati prima del 18 luglio 2012) - che decorrono dal termine di decadenza di cui al primo comma dell’art. 6 cit. - dal deposito del ricorso nella Cancelleria del Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.

Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al Giudice del Lavoro deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Tali nuove disposizioni si applicano anche:

  1. a tutti i casi di invalidità del licenziamento;
  2. ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto;
  3. al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto;
  4. al trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c., con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;
  5. ai contratti a tempo determinato stipulati successivamente al 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del D.L. 161/18, convertito con L. 96/2018), nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018;
  6. alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento;
  7. in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’art. 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.

 

 

Questione 2

E' utile far ricorso a collegi arbitrali?

 Di tanto in tanto, nel nostro paese, viene (ri)lanciata la teoria dell’abbandono della giustizia del lavoro in favore dell’Arbitrato. La giustizia privata dovrebbe sopperire ai disagi della giustizia pubblica, sostituendola e arricchendola.

Si dice infatti che la giustizia del lavoro in Italia non funziona o funziona male, tanto che in alcune città le cause vengono fissate a distanza di anni; la quasi contemporanea riforma del Giudice unico e della privatizzazione del pubblico impiego poi, dovrebbero aggravarne i problemi. Il legislatore infine, avrebbe manifestato un particolare favore per forme alternative (tentativo obbligatorio di conciliazione e Arbitrato) di composizione delle controversie di lavoro, al fine di ridurre il carico di contenzioso dei giudici.

Tutte queste motivazioni si riducono in realtà a una sola: l’eccessivo carico di cause sui giudici del lavoro. Se oggi le cause non vengono fatte, o vengono fatte a distanza di anni, domani, per effetto delle riforme di cui sopra, il ritardo risulterà assolutamente intollerabile. Questo dunque il male. La cura che viene indicata però non convince. Si tratterebbe infatti di far decidere tutte o quasi tutte le controversie di lavoro non più dai giudici della Repubblica, ma da privati cittadini (dotati di particolare conoscenza della materia, docenti universitari in testa) nominati volta per volta (Arbitri), o istituiti stabilmente (Camere Arbitrali permanenti). Tutto questo avverrebbe attraverso strutture da creare ex novo, all’interno degli uffici provinciali del lavoro.

In sostanza, lo Stato prende atto della sua incapacità a regolare giurisdizionalmente il contenzioso del lavoro, se ne spoglia e lo affida ai privati. In questo senso si ripercorre la stessa strada del collocamento. Il collocamento pubblico, affetto da gravi disfunzioni, non svolgeva più la sua (naturale) funzione di collegamento tra domanda e offerta di lavoro: non si è cercato di individuare le ragioni delle disfunzioni per correggerle e ottenere il buon funzionamento di un istituto fondamentale quale il collocamento: si è preferito privatizzarlo. Se un istituto pubblico non svolge adeguatamente il suo ruolo, anziché riformarlo e riportarlo a un livello accettabile di funzionamento, si preferisce affidarlo ai privati. Tutto ciò che è pubblico, infatti, per antonomasia, non funziona, mentre tutto il privato funziona a meraviglia. Con ciò si dimentica però che vi sono funzioni che debbono essere pubbliche per definizione. Nessuno si sognerebbe di sostenere che la Difesa del Paese potrebbe essere affidata ai privati: allo stesso modo il Collocamento e la Giustizia (del lavoro) sono funzioni pubbliche che debbono essere svolte dallo Stato e dai suoi organismi. Solo lo Stato può infatti garantire in settori tanto delicati lo svolgimento di una funzione imparziale, neutra e equilibrata.

La giustizia del lavoro allora, deve essere messa in condizione di funzionare e di funzionare efficacemente. Ma non risulta ad esempio che, prima di ricorrere a forme private di giustizia, si sia fatta una seria indagine per individuare le cause che non consentono oggi alla giustizia del lavoro di funzionare. Se il contenzioso è troppo forse bisognerebbe adeguare gli organici; se mancano le strutture (aule, ausiliari del giudice) forse si potrebbe vedere di dotare gli uffici giudiziari di strutture idonee; se dovesse emergere che qualche magistrato lavora un po’ troppo poco, forse si potrebbe tentare di spiegargli che è arrivato il momento di mandare a casa non solo impiegati e dirigenti pubblici colpevoli di scarso rendimento, ma anche i giudici che hanno scambiato la loro funzione pubblica (importantissima) con una sinecura inattaccabile. Se altre cause ancora dovessero emergere si potrebbe certamente tentare di trovare un rimedio. Pare però inaccettabile rinunciare a svolgere la giurisdizione, senza avere individuato le cause del malfunzionamento e senza avere tentato di porvi rimedio.

In molte città in realtà il processo del lavoro funziona e funziona egregiamente. Ciò significa perlomeno che il modello funziona e può funzionare ovunque, se vengono individuate le distorsioni. E non è neanche un caso che il processo del lavoro sia stato portato a esempio di processo moderno, e si sia ripetutamente pensato di riformare il processo civile sul modello di quello del lavoro.

L’altra considerazione che lascia perplessi è il fatto che anziché pensare ai modi per far funzionare una struttura che c’è già e che è già ampiamente collaudata e sperimentata, si pensa di costruire completamente ex novo una struttura (le Camere Arbitrali) tutta da verificare nelle capacità di funzionamento. Se infatti vi fosse il trasferimento massiccio di contenzioso dai giudici del lavoro alle Camere Arbitrali è chiaro che su questi organismi neonati si abbatterebbe una mole di lavoro spaventosa. Ma è anche chiaro che per far funzionare una macchina del genere sarebbero necessari Arbitri, funzionari , impiegati, strutture in numero massiccio. E quindi una prima domanda riguarda il come reperire tanta forza lavoro e tante strutture; la seconda è invece relativa all’assoluta incertezza circa le capacità di una macchina siffatta di funzionare e di funzionare meglio della attuale giustizia del lavoro. Vale veramente la pena di mettere in piedi una nuova mastodontica creatura, le cui capacità di affrontare e risolvere il contenzioso del lavoro sono tutte da verificare, quando una struttura (pubblica) del genere esiste già e basterebbero forse solo alcuni correttivi per farla funzionare al meglio?

 

Questione 3

Può essere citato in giudizio, insieme al datore di lavoro, anche l'autore del provvedimento che viene impugnato dal lavoratore?

 

La Cassazione, con la sentenza n. 9539, ha risposto positivamente: nel caso di specie, è stato accertato il diritto a convenire in giudizio (anche disgiuntamente dall’azienda) il singolo responsabile personale ritenuto responsabile, dal lavoratore, di un comportamento lesivo nei suoi confronti.

La vicenda prende le mosse dal licenziamento di una lavoratrice di una grande industria. La dipendente ha impugnato il licenziamento avanti il Giudice del lavoro, sostenendone l’annullabilità; ma contemporaneamente ha anche citato in giudizio, sempre avanti il Giudice del lavoro, il capo del personale della società, da lei ritenuto responsabile della vicenda che aveva portato al suo licenziamento e del conseguente danno che la sua reputazione aveva subito. Il capo del personale infatti avrebbe insistentemente e ripetutamente richiesto le sue dimissioni, minacciando anche nei suoi confronti una denuncia per furto; avrebbe inoltre propagato in azienda le contestazioni disciplinari che aveva successivamente mosso alla lavoratrice, dopo che la stessa aveva rifiutato di rassegnare le dimissioni, e le motivazioni poste alla base del licenziamento, con comportamento integrante gli estremi dei reati di diffamazione e di ingiuria. Una prima causa, volta alla richiesta di annullamento del licenziamento e al susseguente risarcimento del danno, è stata quindi proposta solo contro la società datrice di lavoro. Una seconda causa veniva invece proposta contro il responsabile del personale e contemporaneamente nei confronti dell’azienda datrice di lavoro (quest’ultima quale soggetto responsabile dei comportamenti di un suo dipendente ai sensi dell’art. 2049 c.c.) rivendicando il risarcimento del danno biologico, morale e di immagine.

Il Giudice investito di quest’ultima causa dichiarava però la sua incompetenza per materia, escludendo che potesse configurarsi una causa di lavoro, visto che la dipendente faceva valere una responsabilità extra-contrattuale.

La Corte di Cassazione ha invece accolto il regolamento di competenza proposto dalla lavoratrice, affermando che le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato non sono solo quelle che riguardano i due obblighi fondamentali che caratterizzano il rapporto di lavoro (il lavoro da una parte, la retribuzione dall’altra), ma tutte le questioni in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente ad esso. Questo collegamento deve essere individuato ogni volta che il rapporto di lavoro si presenti come antecedente e presupposto necessario della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela in sede giudiziale.

Sulla base di questo principio è stata affermata la competenza del giudice del lavoro sia per le controversie inerenti a veri e propri fatti illeciti che si assumono commessi dai dipendenti in relazione e in occasione dello svolgimento delle prestazioni lavorative, sia per la domanda di risarcimento danni proposta dal lavoratore nei confronti del diretto superiore gerarchico in relazione a un suo comportamento illecito che concretizzi un abuso del potere disciplinare.

 

Questione 4

Qual è il Giudice territorialmente competente nel caso di telelavoro?

 Uno degli aspetti da tenere in considerazione quando si ha intenzione di promuovere una controversia relativa ad un rapporto di lavoro è sicuramente quello della competenza territoriale, ovvero del luogo in cui tale giudizio deve essere instaurato. Ciò in quanto tale scelta può avere un’influenza di non poco conto su aspetti importanti quale, ad esempio, la durata di una causa o i tempi di giudizio, che variano in modo significativo da un Tribunale all’altro. Né si può trascurare la questione dei costi, che possono risultare notevolmente superiori nel caso in cui si debba seguire una causa in un luogo lontano dalla propria residenza, e ciò sia in termini di spostamenti che per la necessità, di regola, di avvalersi di più legali.

Proprio per andare incontro alle esigenze del lavoratore, la legge, che di regola impone di radicare la causa nel luogo ove risiede il soggetto chiamato in giudizio (e quindi il datore di lavoro), prevede, nelle cause promosse da un lavoratore subordinato, la possibilità di scegliere tra più fori alternativi (ovvero tra più Tribunali), che sono, rispettivamente, quello del luogo in cui è avvenuta l’assunzione, quello dove la società ha la sua sede principale o quello in cui la società ha una dipendenza cui il lavoratore stesso è addetto. Ciò consente, in definitiva, al lavoratore di scegliere il Tribunale per lui più comodo da raggiungere, che di regola è appunto quello del luogo in cui lavora e, presumibilmente, vive.

Peraltro, lo svilupparsi di nuove forme di lavoro ha determinato l’insorgere di problemi che il legislatore non aveva, ovviamente, potuto prevedere. E’ il caso, ad esempio, del cosiddetto telelavoro, ovvero del lavoro svolto al proprio domicilio, avvalendosi di strumenti informatici e telematici, e che dunque può essere svolto anche al di fuori della sede aziendale o di una sua dipendenza. Si è, dunque, posto il problema se, in tale ipotesi, il luogo in cui il lavoratore rende la propria prestazione (ovvero la sua residenza) possa considerarsi come una "sede distaccata" dell’azienda, e dunque giustificare l’avvio di una causa in tale località, evitando così al lavoratore onerosi "spostamenti" per raggiungere il Tribunale del luogo dove la società ha sede. La Cassazione, con una recente sentenza (n. 11586 del 14/10/99), ha dato risposta negativa a tale quesito, confermando che il luogo in cui la prestazione viene resa assume rilievo sono nell’ipotesi in cui l’azienda vi abbia una propria dipendenza, non potendosi considerare tale l’abitazione del lavoratore. La Cassazione ha poi escluso che possa essere applicata, nel caso di un lavoratore subordinato, ovvero di un dipendente, la regola che invece vale per quanti prestino una collaborazione coordinata e continuativa, e che appunto prevede come Giudice competente quello del luogo in cui il collaboratore ha il proprio domicilio. In mancanza, dunque, di una riforma legislativa, solo accordi intercorsi a livello individuale, o collettivo, potrebbero porre rimedio a