Orario di lavoro

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Questione 1
Quali sono le principali novità introdotte dal D. Lgs. 66/03 in tema di orario di lavoro?

Recentemente, la materia dell'orario è stata riformata dal D. Lgs. 66/03, che ha dato attuazione ad alcune direttive della UE. Pertanto, anche sulla scorta della nuova normativa, si può definire l'orario di lavoro come il periodo in cui il lavoratore è al lavoro e a disposizione del datore di lavoro, con l'obbligo di esercitare la sua attività o le sue funzioni. Al contrario, qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro è definito come periodo di riposo.
La legge distingue poi tra orario di lavoro normale e orario di lavoro straordinario. Il primo è fissato in 40 ore settimanali, anche se la legge introduce una serie di deroghe a questa regola generale:

  • i contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi possono prevedere una durata inferiore;
  • gli stessi contratti collettivi possono riferire la durata dell'orario normale settimanale alla media in un periodo plurisettimanale. Ciò significa che in una certa settimana il lavoratore può essere chiamato a lavorare per più di 40 ore; ciò nonostante, il lavoro eccedente la quarantesima ora non sarà da considerarsi alla stregua del lavoro straordinario se, nel periodo plurisettimanale preso come riferimento, la media delle ore lavorate sarà comunque di 40. A tale riguardo la legge precisa che, in ogni caso, nell'arco della settimana l'orario di lavoro non deve superare una media di 48 ore (compresi gli straordinari) in 4 mesi, elevabili dai contratti collettivi fino a 12 a fronte di ragioni obiettive specificate nel contratto stesso. Opportunamente, la legge precisa che per il computo della media non bisogna considerare i periodi di ferie o di assenze per malattia;
  • dalla disciplina del normale orario di lavoro e, in particolare, dal limite legislativo delle 40 ore, sono escluse numerose categorie di lavoratori, fatte comunque salve condizioni di miglior favore stabilite dai contratti collettivi. Tra queste possiamo ricordare i giornalisti; il personale poligrafico addetto alle attività di composizione, stampa e spedizione di quotidiani e settimanali; il personale addetto ai servizi di informazione radiotelevisiva; il personale delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, autostrade, servizi portuali e aeroportuali, trasporti pubblici, telecomunicazione, oltre che in altri settori di primaria importanza (gas, energia elettrica, calore, acqua, smaltimento e trasporto dei rifiuti solidi urbani). Per costoro dovrà provvedere un apposito decreto del Ministero del Lavoro, che dovrà comunque uniformarsi ai principi del D. Lgs. 66/03.

Come si diceva, dall'orario normale di lavoro, come sopra definito, si distingue quello straordinario che, com'è facilmente intuibile, non è altro che quello eccedente il normale orario di lavoro e che comunque, per espressa disposizione di legge, deve essere contenuto, nonché remunerato a parte e compensato con maggiorazioni previste dal contratto collettivo. Quest'ultimo può consentire che, in alternativa o in aggiunta alle maggiorazioni retributive, i lavoratori fruiscano di riposi compensativi.
Spetta in primo luogo ai contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi indicare le modalità di esecuzione del lavoro straordinario, fermo restando il già citato limite delle 48 ore medie di lavoro alla settimana, nell'arco di 4 mesi. In assenza di tali accordi, la legge prevede che il ricorso al lavoro straordinario è ammesso solo previo accordo con il lavoratore e per un periodo non superiore a 250 ore all'anno. Tuttavia, la legge prevede anche altri casi in cui lo straordinario è comunque ammesso, quindi a prescindere dalla volontà del singolo lavoratore e salva diversa disposizione da parte dei contratti collettivi:

  • eccezionali esigenze tecnico - produttive, con impossibilità di fronteggiarle mediante l'assunzione di altri lavoratori;
  • casi di forza maggiore o tali per cui la mancata esecuzione di lavoro straordinario possa dar luogo a un pericolo grave e immediato, o un danno alle persone o alla produzione;
  • eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate all'attività produttiva, ovvero allestimento di prototipi o modelli predisposti per le stesse.


Questione 2
Quali sono le principali novità introdotte dal D. Lgs. 66/03 in tema di riposi?

Il D. Lgs. 55/03 definisce periodo di riposo tutto ciò che non rientra nell'orario di lavoro. Tra i riposi in particolare possono essere ricordati:

  • il riposo giornaliero. Il lavoratore, ogni 24 ore, ha diritto a 11 ore di riposo. Questo riposo deve essere continuativo, a meno che il lavoro sia caratterizzato da periodi di lavoro frazionati durante la giornata;
  • le pause. Se l'orario di lavoro giornaliero eccede le 6 ore, il lavoratore ha diritto a una pausa per recuperare le energie psico - fisiche e per consumare il pasto. Le modalità di fruizione e la durata di tali pause sono determinate dai contratti collettivi; in mancanza, al lavoratore deve comunque essere concessa una pausa da fruirsi tra l'inizio e la fine del periodo giornaliero di lavoro e della durata non inferiore a dieci minuti; la collocazione di questa pausa deve tener conto delle esigenze produttive. In ogni caso, queste pause non sono retribuite, né possono essere considerate come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata sopra indicati;
  • il riposo settimanale. Il lavoratore ha diritto, ogni 7 giorni, a un riposo di almeno 24 ore consecutive. Queste ore di riposo settimanale non compensano le 11 ore di riposo giornaliero di cui si è detto, ma si aggiungono ad esse. Il diritto appena enunciato non è però previsto per alcune categorie di lavoratori (lavori a turno, ogni volta che il lavoratore cambi squadra e non possa usufruire, tra la fine del servizio di una squadra e l'inizio di quello della squadra successiva, di periodi di riposo giornaliero o settimanale; le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata; per alcune categorie di persone che lavorano nel settore dei trasporti ferroviari). Il riposo settimanale deve, di regola, coincidere con la domenica, salvi i casi - previsti dalla legge - in cui il giorno di riposo settimanale può essere fissato in un giorno diverso dalla domenica;
  • le ferie annuali. Il lavoratore ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a 4 settimane, con facoltà dei contratti collettivi di stabilire condizioni di miglior favore. Nel caso di mancata fruizione delle ferie, queste non possono essere sostituite con la relativa indennità per ferie non godute, se non al momento di risoluzione del rapporto.

Il riposo giornaliero e le pause possono essere derogati dai contratti collettivi nazionali. In mancanza di questi accordi, è previsto un apposito decreto del Ministero del Lavoro per apportare e disciplinare le deroghe in casi previsti dalla legge, quali: attività caratterizzate dalla distanza fra il luogo di lavoro e il luogo di residenza del lavoratore; attività di guardia e sorveglianza; attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, come nel caso degli ospedali, porti e aeroporti, servizi della stampa, radiofonici, televisivi, trasporto urbano e ferroviario. Oltre a queste deroghe abbastanza specifiche, ce ne sono altre molto più generiche e dalla portata allo stato imprevedibile che, comunque, rischiano addirittura di vanificare i diritti di cui si sta parlando, giacché la legge prevede l'introduzione di deroghe non solo a fronte di circostanze eccezionali e imprevedibili, ma addirittura quando si verifichi un sovraccarico prevedibile di attività. In ogni caso, le diverse deroghe sono ammesse solo a condizione che al lavoratore sia accordato un equivalente periodo di riposo compensativo, sempre che - altra deroga - il riposo compensativo sia impossibile per motivi oggettivi.
Il quadro non può essere completo senza specificare che il D. Lgs. introduce altre deroghe, ancora più significative e radicali, nei confronti dell'orario ordinario e straordinario di lavoro, nonché dei riposi giornaliero e settimanale e delle pause. Infatti, si dispone che tutti i diritti contemplati dalla riforma per gli istituti appena richiamati non operano nei confronti di alcune categorie di lavoratori, tra cui i dirigenti, la manodopera familiare, i lavoratori a domicilio o nel caso di telelavoro.

Questione 3
Come sono disciplinati i permessi per la cura parentale e per la formazione professionale?

La L. 53/00 disciplina, tra l'altro, permessi per la cura parentale in genere o per la formazione professionale. Si tratta per lo più di nuovi istituti, che in precedenza erano solo ed eventualmente disciplinati dalla contrattazione collettiva e che ora, per la prima volta, hanno una disciplina legale. I permessi per le cure parentali sono disciplinati dall'art. 4 della legge citata, che prevede due ipotesi. La prima (disciplinata dal comma 1) riguarda il decesso o la documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente: in questi casi, il lavoratore e la lavoratrice hanno diritto ad un permesso retributivo di 3 giorni lavorativi all'anno o, in alternativa per il caso di grave infermità, la facoltà di concordare con il datore di lavoro diverse modalità di espletamento dell'attività lavorativa. Non si può mancare di sottolineare che la legge, forse per la prima volta, introduce un vero e proprio diritto di assistenza nei confronti del convivente: vero è che il diritto è subordinato ad un certificato anagrafico che comprovi la convivenza; in ogni caso, è evidente che il legislatore ha concesso una prima, forse timida apertura nei confronti delle coppie di fatto.
La seconda ipotesi (disciplinata dal comma 2) riguarda i gravi e documentati motivi familiari, tra cui sono ricomprese le patologie che saranno individuate mediante apposito decreto ministeriale (sul punto, v. il DPCM 21/7/00 n. 278). In questi casi, i dipendenti possono richiedere un periodo di congedo non retribuito e non computato nell'anzianità di servizio né ai fini previdenziali. Il congedo può essere continuativo o frazionato e non può superare i 2 anni. Durante il congedo viene conservato il posto di lavoro, ma il lavoratore non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. È demandata alla contrattazione collettiva la disciplina delle modalità di partecipazione ad eventuali corsi di formazione del personale che riprende l'attività lavorativa dopo il congedo in questione.

I congedi per la formazione sono disciplinati dagli artt. 5 e 6 della legge in esame. La prima norma prevede che il lavoratore, con almeno 5 anni di anzianità, possa chiedere una sospensione del rapporto di lavoro per un periodo non superiore a undici mesi, continuativo o frazionato, nell'arco dell'intera vita lavorativa. La sospensione in questione è finalizzata al c.d. congedo per la formazione, ovvero al completamento della scuola dell'obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea o comunque alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere dal datore di lavoro. Durante il congedo, il lavoratore conserva il posto di lavoro, ma non ha diritto alla retribuzione. Il congedo non è computabile nell'anzianità di servizio, ma il lavoratore può riscattarlo a fini pensionistici. Inoltre, il lavoratore che fruisca del congedo in questione può prolungare il rapporto di lavoro per un periodo corrispondente, e ciò anche in deroga alle disposizioni concernenti l'età di pensionamento obbligatorio, purché ne faccia richiesta al datore di lavoro entro sei mesi dalla data prevista per il pensionamento. La richiesta del congedo può essere rifiutata o differita dal datore di lavoro per comprovate esigenze organizzative. In ogni caso, la legge rinvia ai contratti collettivi per la disciplina delle modalità di fruizione del congedo.
L'art. 6 disciplina invece i congedi per la formazione continua, sancendo il diritto dei lavoratori, anche disoccupati, a proseguire i percorsi di formazione per l'intero arco della loro vita. Spetta invece alla contrattazione collettiva definire il monte ore da destinare ai congedi in questione.
La tutela del lavoratore alla fruizione dei permessi di cui si parla è rafforzata dalle disposizioni dettate dall'art. 18 in materia di recesso. Più precisamente, la norma dispone la nullità del licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione dei permessi in questione.

Questione 4
Il tempo per indossare la divisa deve essere ricompreso nell'orario di lavoro?

Il datore di lavoro può certamente imporre ai propri dipendenti di indossare una divisa durante lo svolgimento dell'attività lavorativa: ciò evidentemente è un aspetto del potere imprenditoriale di organizzare liberamente l'attività produttiva. Tuttavia, questo potere del datore di lavoro non può andare a danno dei lavoratori: così, per esempio, il datore di lavoro non potrebbe pretendere che siano i lavoratori ad affrontare i costi per l'acquisto o per la pulizia della divisa.
Per gli stessi motivi, il datore di lavoro non può neanche pretendere che il lavoratore vesta e svesta la divisa al di fuori dell'orario di lavoro. Infatti, l'orario di lavoro rappresenta il confine tra il momento in cui il dipendente è soggetto al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, e il momento in cui il lavoratore è sottratto a tale potere. In altre parole, il lavoratore è soggetto all'ordine, impartito dal datore di lavoro, di indossare la divisa solo nel lasso di tempo segnato dall'orario di lavoro; al di fuori di esso, ovviamente, il lavoratore non soggiace né a questa né ad altre manifestazioni del potere imprenditoriale.
Né si potrebbe obiettare, in contrario, che l'orario di lavoro è quello in cui il lavoratore esegue la propria prestazione lavorativa, strettamente intesa (per esempio, lavoro al tornio). In realtà, la prestazione lavorativa non può essere intesa in senso così rigoroso; al contrario, ogni attività che sia comunque funzionale alla esecuzione della prestazione lavorativa principale deve essere ricompresa nella nozione di lavoro e, dunque, nell'ambito dell'orario lavorativo. Tanto per restare all'esempio del tornitore, è evidente che il suo lavoro non consisterà solamente nell'operare alla macchina ma, per esempio, anche nel prelevare dal magazzino i pezzi che andranno lavorati. Nessuno dubita che il tempo necessario a tale prelevamento rientri nell'orario di lavoro del tornitore; analogamente deve essere per la vestizione / svestizione, in quanto attività ausiliaria alla prestazione lavorativa principale, imposta dal datore di lavoro per il migliore funzionamento dell'azienda.
Neppure si potrebbe assimilare l'operazione di cui si parla ad una sosta non retribuita. Infatti, per legge (art. 6 u.c. RDL 13/11/24 n. 1825, convertito in L. 18/3/26 n. 562), le uniche soste non retribuibili sono quelle nell'interesse del lavoratore, mentre devono essere retribuite quelle svolte nell'interesse del servizio.

Questione 5
E' legittimo pretendere che il lavoratore lavori anche la domenica, dopo aver lavorato per tutta la settimana?

Il lavoratore, qualora fosse chiamato a prestare la sua attività di domenica, dovrebbe percepire, oltre alla normale retribuzione, una indennità che sia sufficiente a compensare il sacrificio di lavorare in una giornata normalmente dedicata al riposo e allo svago. Questa maggiorazione deve essere corrisposta anche nel caso di riposo compensativo, e – in caso di contestazione e sempre che al riguardo il contratto collettivo di lavoro nulla disponga - deve essere quantificata dal giudice in via equitativa.
Diverso è invece il problema della cadenza settimanale del riposo, ovvero del diritto al riposo dopo sei giorni continuativi di lavoro. Questo diritto discende da numerose disposizioni legislative: l'art. 2109 c. 1 c.c. riconosce al lavoratore il diritto "ad un giorno di riposo ogni settimana"; l'art. 1 L. 22/2/34 n. 370 dispone che al lavoratore "è dovuto ogni settimana un riposo di 24 ore consecutive"; l'art. 36 c. 3 Cost. dispone che "Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale [...] e non può rinunciarvi".
Dalle suddette norme di legge la giurisprudenza ha tratto la conclusione che il lavoratore ha diritto, dopo sei giorni continuativi di riposo, ad una giornata di riposo, dichiarando altresì nulle le eventuali disposizioni contrattuali contrarie. Né la situazione potrebbe essere sanata anticipando il riposo settimanale: infatti, il principio del riposo settimanale risponde all’esigenza di tutelare la salute del lavoratore, consentendogli di recuperare le energie perdute. Pertanto, mentre è possibile ristorare le energie già spese, non si può pensare diaccumulare le energie in vista del loro futuro dispendio.
Qualora venisse violato il diritto al riposo dopo sei giorni di lavoro continuativo, il lavoratore dovrebbe ricorrere al giudice, che risarcirà il danno conseguentemente subito secondo equità. Nella quantificazione del danno, il giudice (considerando che la lesione del diritto in questione è configurabile come reato ex art. 27 L. 370/34) dovrà tener conto anche della sua componente morale. E' stato anche affermato che il risarcimento deve tener conto di ogni giornata lavorativa continuativamente prestata dopo la sesta, e deve essere commisurato alla normale retribuzione per ogni giornata lavorata dopo la sesta.
 
Questione 6
E’ vero che è vietato adibire le donne al lavoro notturno?

Il lavoro notturno è vietato alle lavoratrici "nelle aziende manifatturiere, anche artigianali" dall'art. 5 L. 9/12/77 n. 903. Più precisamente, il divieto opera dalle ore 24 alle ore 6, e non riguarda le donne che svolgano mansioni direttive o che siano addette ai servizi sanitari aziendali.

La norma prevede anche la possibilità di regolare diversamente il divieto e anche di rimuoverlo, attraverso la stipulazione di un contratto collettivo, anche aziendale, da comunicarsi entro 15 giorni all'Ispettorato del lavoro, con indicazione delle lavoratrici interessate. La diversa regolamentazione deve essere giustificata in ragione di particolari esigenze della produzione, tenendo altresì conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell'organizzazione dei servizi. La Corte di cassazione penale, con sentenza del 2/12/86, ha precisato che sul rispetto di queste esigenze deve vigilare l'Ispettorato del lavoro; conseguentemente, la comunicazione di cui si è detto assume una natura sostanziale e non meramente formale, poiché consente all'Ispettorato di verificare che la modifica al divieto posto dalla legge sia lecitamente avvenuta.
In ogni caso, il divieto di cui all'art. 5 L. 903/77 non può essere derogato nei confronti della lavoratrice madre, dal concepimento e fino al compimento del settimo mese di età del bambino.
Il Ministero del lavoro, con circolare n. 142 del 28/12/83, ha chiarito che l'accordo aziendale idoneo a derogare al divieto legislativo deve essere stipulato da una espressione sindacale aziendale, rappresentativa dei lavoratori, comunque denominata (Rappresentanza Sindacale Aziendale, Consiglio di Fabbrica o altro); in altre parole, la deroga al divieto non potrebbe essere legittimamente prevista in un accordo stipulato direttamente con i singoli lavoratori.
La Corte di giustizia dell'Aja ha censurato lo Stato italiano in relazione al divieto in questione, giudicato discriminatorio. In realtà, si deve pure tener presente che, prima che tale divieto fosse introdotto, si era creato un vero e proprio abuso del lavoro notturno femminile, in quanto si reputava che le lavoratrici fossero il soggetto più debole tra i prestatori d'opera, e quindi più facilmente avviabili ad un turno di lavoro particolarmente disagevole. Inoltre, non si può dimenticare che il sindacato può sempre rimuovere il divieto, se sussistono valide ragioni.

Questione 7
Quali sono i diritti di un lavoratore che è tenuto ad essere reperibile nelle giornate di domenica?

E' indubbio che la reperibilità prestata per le giornate festive non consenta al lavoratore di godere pienamente del suo giorno di riposo, e ciò anche nel caso in cui tale reperibilità non si traduca, di fatto, in una prestazione lavorativa.

Per tale motivo si ritiene pacificamente che il disagio subìto dal lavoratore a causa di tale reperibilità debba essere, in qualche modo compensato.
Al riguardo, la Corte di Cassazione aveva in un primo tempo affermato che la reperibilità, imponendo al lavoratore delle restrizioni significative, e dunque impedendogli di recuperare le proprie energie psicofisiche nella giornata domenicale, costituiva una violazione della norma Costituzionale (art. 36 Cost.) che prevede il diritto (irrinunciabile) del lavoratore al riposo settimanale. Conseguentemente, erano state dichiarate illegittime le clausole dei contratti collettivi che prevedevano l'obbligo di reperibilità, sebbene compensato economicamente.
Il più recente orientamento della Corte di cassazione tende invece ad escludere che si possa equiparare la reperibilità alla prestazione lavorativa in senso stretto. Per tale motivo è stato negato, innanzitutto, che al lavoratore reperibile nella giornata domenicale spetti un giorno di riposo compensativo infrasettimanale. Viceversa, al dipendente che debba garantire la propria reperibilità nella giornata domenicale spetterà soltanto un compenso economico per il disagio che tale situazione gli crea. Per quel che riguarda la quantificazione di tale compenso (che, per le ragioni sopra indicate, non potrà coincidere con la retribuzione spettante in caso di prestazione lavorativa), si segnala una recente sentenza, sempre della Cassazione (n. 5245/95), che ha ritenuto equa una clausola del contratto collettivo dei dipendenti Sip (ora Telecom) che fissava nel 30% della retribuzione ordinaria l'importo spettante al lavoratore reperibile nel giorno di riposo.
Conviene precisare che il compenso di cui si parla, essendo specificamente ricollegato alla particolarità della prestazione richiesta, non entra a far parte definitivamente della retribuzione, ma potrà essere revocato al cessare dell'obbligo di reperibilità.

Questione 8
Quali sono le novità introdotte dalla Legge Treu alla disciplina dell'orario di lavoro?

L'art. 13 della legge 196/97 (legge Treu) contiene importanti misure che apportano importanti novità alla disciplina dell'orario di lavoro. In sintesi, si può dire che la norma citata ha previsto quanto segue:

  • diminuzione del limite legale dell'orario settimanale di lavoro. Più precisamente, in precedenza la legge prevedeva che la quantità di lavoro settimanale non potesse eccedere le 48 ore; ora la legge (allineandosi alla contrattazione collettiva, che di regola già aveva fissato un limite inferiore a quello legale) stabilisce che l'orario settimanale di lavoro non possa eccedere le 40 ore. Inoltre, la legge Treu assegna ai contratti collettivi nazionali la possibilità di stabilire una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno: ciò dovrebbe comportare la scomparsa degli attuali permessi per ROL (riduzione dell'orario di lavoro), da sostituirsi con la effettiva riduzione dell'orario di lavoro settimanale in alcuni periodi dell'anno: in questo caso, l'orario di lavoro risulterebbe dalla media dell'orario in questi periodi a lavoro ridotto e dell'orario nei rimanenti periodi ad orario pieno e comunque non superiore a 40 ore;
  • incentivi al ricorso a forme di orario ridotto. In altre parole, allo scopo di favorire la riduzione dell'orario di lavoro, la legge assegna al Ministro del lavoro e della previdenza sociale il compito di emanare, nel termine di 60 giorni, un decreto con cui stabilire, in sostanza, una riduzione dei contributi in proporzione alla riduzione dell'orario di lavoro, così incentivando la riduzione d'orario attraverso la diminuzione del costo del lavoro. La legge precisa anche che, in via sperimentale e nel corso dei primi due anni di vigenza della legge stessa, le segnalate agevolazioni sono prioritariamente destinate ai casi in cui i contratti collettivi prevedano riduzioni d'orario finalizzate a nuove assunzioni a tempo indeterminato, ovvero nel caso in cui il contratto preveda una trasformazione di rapporti da tempo pieno a tempo parziale nell'ambito della gestione di esuberi di personale;
  • incentivi alla adozione di contratti part – time. Con lo stesso decreto di cui si è sopra parlato, si dovranno prevedere riduzioni dei contributi in alcuni casi di contratti a tempo parziale (contratti part – time stipulati in aree depresse con lavoratori inoccupati di età compresa tra i 18 e i 25 anni; trasformazione a part – time di contratti con lavoratori che, nei successivi 3 anni, conseguano il diritto alla pensione, a condizione che contemporaneamente si assumano a part – time giovani inoccupati di età inferiore a 32 anni; contratti part – time stipulati con lavoratrici che tornino al lavoro dopo almeno 2 anni di inattività; contratti part – time stipulati nel settori della salvaguardia e del recupero dell'ambiente, del territorio, degli spazi urbani e dei beni culturali; contratti part – timestipulati da imprese che abbiano attuato interventi di risparmio energetico o di impiego di energie alternative). Inoltre, il rapporto part – time viene esteso al settore agricolo.