Mobbing

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Questione 1
Che cos’è il mobbing?

Nell’accezione più comune, con il termine mobbing, nel nostro ordinamento, ci si riferisce all’insieme di comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un individuo da parte di una o più altre persone sul posto di lavoro, in modo sistematico e prolungato nel tempo, in modo tale da provocare disagi psicologici, psicosomatici e sociali che comportano una lesione della dignità  personale, nonché della salute psicofisica.
Il termine in esame, dunque, il complesso delle persecuzioni psicologiche che possono essere poste in essere nei confronti del lavoratore da parte dei superiori (cd. mobbing verticale) o dei colleghi (mobbing orizzontale) finalizzate a colpire ed emarginare il soggetto.
Le forme che questa azione può assumere sono varie, passando, ad esempio, dagli abusi psicologici e angherie, dalla dequalificazione dei compiti assegnati alla persona oggetto della persecuzione alla sua emarginazione nell’ambito lavorativo, dalla diffusione di notizie false ed offensive alle quotidiane critiche sul suo operato, per arrivare all’attacco all'immagine sociale nei confronti di colleghi e superiori. Queste azioni, per essere rilevanti, sono effettuate con un’alta frequenza (almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (per almeno sei mesi).
Lo scopo principale del mobbing è, normalmente, quello di spingere una persona ritenuta “scomoda” a dare le dimissioni dall’azienda o a commettere azioni che ne giustifichino illicenziamento (c.d. mobbing strategico).

Questione 2
Il lavoratore può ottenere il risarcimento del danno biologico anche quando questo sia causato da un comportamento astrattamente lecito del suo datore di lavoro?
 
Di regola, il risarcimento di ogni danno, ivi compreso quello biologico, presuppone la natura illecita del comportamento che l'ha cagionato. Tuttavia, la Cassazione, con la sentenza n. 475, pronunciata il 19/1/99, ha riconosciuto che, a determinate condizioni, anche un comportamento astrattamente lecito può essere fonte di risarcimento del danno.
Più precisamente, la Corte ha affermato che le reiterate visite di controllo sul lavoratore assente per malattia, richieste dal datore di lavoro, possono configurare un comportamento persecutorio, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento dei danni subiti a causa di tale comportamento. Come è facile intuire, l'importanza della segnalata sentenza sta nel fatto che è stato riconosciuto il diritto al risarcimento in un caso in cui il danno era stato causato da un fatto in sé lecito.
Più precisamente, un datore di lavoro aveva continuativamente chiesto il controllo sulla malattia di una lavoratrice che si era assentata dal lavoro per sindrome ansioso-depressiva. L'esercizio di questo diritto era tanto più vessatorio, se si pensa non solo alla sistematicità del controllo, ma anche al fatto che, puntualmente, il controllo si concludeva con la conferma della persistenza della malattia. Pertanto la lavoratrice, dopo essersi dimessa, si era rivolta al Giudice del lavoro, sostenendo che l'assillo delle quotidiane visite di controllo aveva aggravato e stabilizzato la sua malattia, chiedendo quindi il risarcimento dei danni subiti. Il Tribunale, in sede di appello, aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, condannandolo al risarcimento del danno biologico, del danno alla capacità lavorativa, del danno morale e del danno patrimoniale (quest'ultimo, sotto il profilo della perdita di guadagno conseguente alle dimissioni). La citata sentenza della Corte di cassazione ha sostanzialmente confermato tale sentenza, riconoscendo dunque che anche l'esercizio di un diritto, se avviene con modalità vessatorie, può cagionare un danno risarcibile.
La pronuncia è tanto più importante se si pensa che nel nostro ordinamento, come si diceva, il presupposto per il risarcimento del danno è la natura illecita del fatto che lo ha cagionato. In altre parole, anche l'esercizio di un diritto può causare un danno; tuttavia, tale danno, proprio perché causato da un comportamento lecito, non può trovare risarcimento. Ebbene, nel caso esaminato dalla sentenza in questione, il comportamento del datore di lavoro non costituiva in sé, astrattamente considerato, un illecito, dal momento che egli ha sempre la facoltà di controllare, mediante gli organismi del sistema sanitario pubblico, l'effettivo stato di malattia del lavoratore.
Tuttavia, talvolta un diritto può essere esercitato in maniera del tutto irragionevole e con finalità meramente vessatorie. Un esempio è fornito dal caso esaminato dalla pronuncia citata della suprema Corte, ma questo non è l'unico caso in cui l'esercizio di un diritto può costituire fonte di responsabilità per danni. Si pensi, per fare un altro esempio, al datore di lavoro che perseguita il proprio dipendente sommergendolo di sanzioni disciplinari che, benché rientranti nell'astratto potere disciplinare del datore di lavoro, per la loro sistematicità e per la loro pretestuosità potrebbero configurarsi appunto come persecutorie e vessatorie. Anche in un caso come questo, dunque, il dipendente che abbia subito un danno potrà rivolgersi al Giudice del lavoro per ottenere il risarcimento.