Mansioni e qualifiche

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Questione 1

Può il datore di lavoro, nel corso del rapporto di lavoro, modificare le mansioni del dipendente?
 
Fino al 25 giugno 2015, l’art. 2103 del codice civile riconosceva al lavoratore il diritto a essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita o, ancora, a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Il datore di lavoro che avesse voluto mutare le mansioni del lavoratore avrebbe dunque potuto farlo solo assegnandogli mansioni superiori o equivalenti. 

L’art. 2013 c.c. stabiliva inoltre che, in caso di assegnazione a mansioni superiori, al lavoratore spettava il trattamento corrispondente all’attività svolta; qualora, poi, lo svolgimento delle mansioni superiori fosse proseguito per un determinato periodo di tempo fissato dalla contrattazione collettiva (e comunque non superiore a 3 mesi), l’assegnazione diveniva definitiva, a meno che la medesima non avesse avuto luogo per la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto.    

Il suddetto quadro normativo è profondamente mutato a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 81/2015, uno dei provvedimenti attuativi del c.d. Jobs Act (Legge delega n. 183 del 2014), che, oltre a rimodulare l’intera disciplina dei contratti di lavoro, ha riformulato anche il contenuto dell’art. 2103 c.c.

In primo luogo, la riforma del 2015 ha sostituito il concetto di equivalenza delle mansioni con quello, assai più labile, della mera riconducibilità della mansione al medesimo livello e inquadramento contrattuale. Il datore di lavoro è quindi ora libero di assegnare al lavoratore nuove mansioni anche non equivalenti, alla sola condizione che dette mansioni siano genericamente riconducibili allo stesso livello e alla stessa categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte dal dipendente.

La nuova normativa ha poi introdotto una specifica ipotesi in cui il datore di lavoro può legittimamente assegnare al lavoratore una mansione inferiore: in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, infatti, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché si tratti di mansioni rientranti nella medesima categoria legale. 

Ulteriori ipotesi di legittimo demansionamento potranno inoltre essere introdotte dalla contrattazione collettiva.

In base alla nuova disciplina, il lavoratore legittimamente dequalificato ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo di cui gode al momento del mutamento. Le parti sono però libere di concordare una riduzione della retribuzione oppure una modifica in senso peggiorativo delle mansioni, della categoria legale o del livello di inquadramento. La legittimità di tale accordo è subordinata a un duplice requisito: deve essere raggiunto in una sede protetta e deve giustificato dall’interesse del lavoratore alla conservazione della occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

In caso di mutamento delle mansioni, il datore di lavoro è tenuto, ove necessario, a formare adeguatamente il lavoratore. Il mancato adempimento di tale obbligo, tuttavia, non determina la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

La riforma del 2015 ha rinnovato anche la disciplina dell’assegnazione a mansioni superiori, anzitutto aumentando il periodo di tempo di assegnazione necessario affinché il lavoratore acquisisca in via definitiva la qualifica superiore: dai 3 mesi della disciplina previgente, si passa a 6 mesi, con l’ulteriore, significativa novità che detto periodo deve essere continuativo (in precedenza era invece prevista la possibilità che la maturazione dei 3 mesi avvenisse anche sommando singoli periodi di assegnazione alla mansione superiore).

Viene poi riconosciuta alla contrattazione collettiva la facoltà di modificare il termine di 6 mesi, eventualmente anche aumentandolo (la vecchia disciplina prevedeva al contrario che la contrattazione collettiva potesse modificare il termine di 3 mesi solo in senso migliorativo per il lavoratore, vale a dire solo diminuendolo).  

Da ultimo, il settimo comma del nuovo art. 2103 c.c. fa salva la diversa volontà del lavoratore: cioè a dirsi che il lavoratore ha ora la possibilità di rifiutarsi di essere definitivamente adibito alle mansioni superiori.

Quanto al profilo risarcitorio, va rilevato che la giurisprudenza è ormai unanime nell’affermare che una dequalificazione o addirittura la totale sottrazione di ogni mansione si riflettano sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo "valore" sul mercato del lavoro, determinando perciò un danno di tipo professionale. Conseguentemente, la giurisprudenza ha ripetutamente ritenuto risarcibile il danno alla professionalità, conseguentemente riconoscendo, in via equitativa, un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi è stato anche accertato che il demansionamento, traducendosi in una sofferenza fisico-psichica, abbia prodotto danni alla salute del dipendente. In casi come questi, dopo che è stato rigorosamente provato il nesso di causalità tra il comportamento illegittimo del datore di lavoro e la malattia (da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica), è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico, liquidato sempre in via equitativa.

 

Questione 2

E' legittimo escludere un lavoratore da un concorso interno per l'assegnazione ad una qualifica superiore?

Nel caso in cui il datore di lavoro bandisca un concorso interno per l’assegnazione di una qualifica superiore, l'esclusione dal concorso di un lavoratore che possegga tutti i requisiti previsti dal bando è sicuramente illegittima.

Tuttavia, la semplice partecipazione ad un concorso non comporta necessariamente il conseguimento di un risultato utile; in altre parole, se il lavoratore escluso avesse partecipato alla gara, forse avrebbe conseguito la qualifica superiore, ma forse no. In una simile situazione di incertezza, è evidente l'impossibilità di chiedere al giudice la condanna del datore di lavoro ad attribuire la qualifica superiore.

Il problema è stato risolto dalla giurisprudenza, che ha introdotto la nozione del danno consistente nella perdita di opportunità. Nel nostro ordinamento, esiste il principio generale che ogni danno, causato da un fatto ingiusto, debba essere risarcito (art. 2043 c.c.). La novità, introdotta dalla giurisprudenza, sta nel fatto di ricomprendere nella nozione di danno non solo la lesione di diritti soggettivi, ma anche la violazione di legittime aspettative, quindi la lesione di interessi connessi alla perdita di chances (v. Cass. 4/5/82 n. 2765, in Foro it. 1982, I, 2864). Anzi, è stato ritenuto che il danno in questione consista non in un mancato arricchimento (lucro cessante), ma in una vera e propria riduzione del proprio patrimonio (danno emergente), depauperato della occasione perduta (Cass. 19/12/85 n. 6506, in Foro it. 1986, I, 383).

Applicando il principio elaborato dalla giurisprudenza sopra citata, ne consegue che il lavoratore, illegittimamente escluso da un concorso, ha subito un danno, consistente nella perdita di una opportunità, che deve essere risarcito. A questo punto occorre individuare il parametro da utilizzare per quantificare, in termini monetari, il risarcimento dovuto al lavoratore. Per risolvere tale questione, si deve fare ricorso ad un altro principio generale, secondo cui il danno, che non possa essere provato nel suo preciso ammontare, deve essere liquidato dal giudice in via equitativa (art. 1226 c.c.). Si tratta di una tecnica di liquidazione del danno che la giurisprudenza del lavoro ha applicato in diverse occasioni, per esempio al fine di quantificare il danno professionale o il danno biologico. Solo al fine di fornire una indicazione di massima, si può ricordare che la sentenza Pret. Lucca 26/10/94 (in D&L 1995, 648) ha equitativamente quantificato il danno nella misura di tre mensilità.

 

Questione 3

Può il lavoratore contestare il risultato di un concorso interno relativo all'assegnazione di mansioni superiori?
 
Nell’ambito di un rapporto di lavoro, la promozione ad una qualifica superiore o ad una determinata mansione può avvenire o in virtù di una decisione discrezionale del datore di lavoro, che stabilisce di premiare un determinato dipendente in virtù dei suoi meriti, ovvero in base ad un concorso.

In questa seconda ipotesi, il comportamento del datore di lavoro deve essere improntato ai canoni di correttezza e buona fede, ovvero la scelta deve avvenire in applicazione di un valutazione obiettiva e non discriminatoria dei requisiti di ciascun candidato.

Può, però, accadere, all’esito di una simile selezione, che un lavoratore ritenga di non essere stato correttamente valutato, e dunque di aver subito un ingiustificato pregiudizio, che incide sullo sviluppo della sua carriera e, quindi, anche sul suo reddito.

A tal proposito, la Cassazione ha più volte ribadito che, nel caso in cui il datore di lavoro non rispetti, nella procedura concorsuale, i principi di correttezza e buona fede, questi è tenuto a corrispondere al lavoratore illegittimamente escluso un risarcimento del danno (c.d. danno da perdita di chance), il cui ammontare è determinato dal giudice “sulla base del tasso di probabilità che il lavoratore aveva di risultare vincitore, qualora la selezione fra i concorrenti si fosse svolta in modo corretto ne trasparente” (v. Cass. 3/3/2010, n. 5119).

Per ottenere tale risarcimento, il lavoratore deve dimostrare in giudizio, anche in via presuntiva e probabilistica, la concreta possibilità di essere selezionato, fornendo in particolare la prova di quegli elementi di fatto idonei a far ritenere che il regolare svolgimento della procedura selettiva avrebbe comportato una concreta, e non ipotetica, probabilità di vittoria (v. Cass. 23/1/2009, n. 1715; Cass. 6/6/2006, 13241; Cass. 1/12/2004, n. 22524).

 

Questione 4

A seguito delle modifiche introdotte dal Jobs Act, quali diritti spettano al lavoratore che sostituisca temporaneamente un collega con qualifica superiore?
 
L’art. 2103 c.c., nella formulazione antecedente la riforma del 2015, stabiliva, da un lato, che, in caso di assegnazione a mansioni superiori, il lavoratore aveva diritto a percepire il trattamento economico corrispondente alle mansioni superiori; dall’altro lato, che l’assegnazione alle mansioni superiori diventava definitiva dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi.

Il nuovo art. 2103 c.c. mantiene inalterato il diritto, in capo al lavoratore assegnato a mansioni superiori, a ricevere il trattamento corrispondente all’attività svolta, ma introduce alcune significative novità in materia di assegnazione definitiva alle mansioni superiori, e in particolare:

  • aumenta a 6 mesi il tempo necessario a far sì che l’assegnazione divenga definitiva e il lavoratore acquisisca il corrispondente livello di inquadramento;
  • prevede la facoltà per la contrattazione collettiva di aumentare ulteriormente questo termine (la vecchia disciplina prevedeva al contrario che la contrattazione collettiva potesse solo diminuire il precedente termine di 3 mesi);
  • stabilisce espressamente che il periodo di assegnazione alle mansioni superiori deve essere continuativo e non frazionato, superando così i dubbi interpretativi legati alla precedente formulazione della norma, che nulla diceva in merito all’eventuale frazionabilità del periodo di assegnazione;
  • riconosce al lavoratore la possibilità di rifiutarsi di essere definitivamente adibito alle mansioni superiori.