Licenziamento individuale - reintegrazione

  • Stampa

 

Questione 1

In quali casi il lavoratore può ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro?

La reintegrazione – intesa come obbligo per il datore di lavoro di riammettere il dipendente nel posto che occupava prima del licenziamento – è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

Fino al 2012, la legge applicava questa particolare forma di tutela in tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo di lavoratori assunti presso datori di lavoro che superavano specifiche soglie dimensionali (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 in caso di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale).

Tra il 2012 e il 2015, tuttavia, il legislatore ha sensibilmente ridotto le ipotesi in cui il giudice può ordinare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente illegittimamente licenziato.  

In particolare, la L. 92/2012 (c.d. riforma Fornero) è intervenuta direttamente sul testo dell’art. 18, introducendo quattro differenti regimi di tutela, che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi del licenziamento. Nell’ambito di tale disciplina, l’integrazione è contemplata:

  • in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure disposto in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge;
  • in caso di licenziamento intimato in forma orale;
  • in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del CCNL applicabile;
  • in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato.

Successivamente, con D. Lgs. 23/2015, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia dei licenziamenti, introducendo un regime sanzionatorio innovativo, che si applica a tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, e che limita ulteriormente il novero delle ipotesi in cui il giudice piò disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.

In forza della nuova disciplina (“contratto di lavoro a tutele crescenti”), la reintegrazione opera in caso di:

  • licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della legge n. 300 del 1970.
  • licenziamento nullo per espressa previsione di legge.
  • licenziamento inefficace perché intimato in forma orale.
  • licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
  • licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

 

Questione 2

A seguito delle riforme del 2012 e del 2015, cosa prevede e a chi si applica il regime di tutela previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori?

Le riforme del 2012 (legge Fornero) e del 2015 (Jobs Act) hanno completamente ridisegnato il sistema delle tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo. Attualmente, il nostro ordinamento prevede due diversi regimi di tutela:

  • quello disciplinato dall’art. 18 della legge 300/1970 (come modificato dalla L. 92/2012), che si applica a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015;
  • quello contenuto nel d.lgs. 23/2015, che trova invece applicazione nei confronti dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti.

Focalizzando l’attenzione sul primo regime di tutela, di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, va evidenziato che, a seguito delle modifiche introdotte dalla riforma del 2012, esso oggi riconosce ai lavoratori garanzie differenti a seconda della gravità del vizio che inficia il licenziamento. Si distinguono, in particolare, quattro differenti tipi di tutela.

 

1. Tutela reintegratoria “piena”

Tale tutela si applica:

  • in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge;
  • nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché intimato in forma orale.

È bene precisare che essa trova applicazione a prescindere dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro ed è prevista anche a favore dei dirigenti.

In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione. Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo). Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.

Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità – entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza – di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

 

2. Tutela reintegratoria “attenuata”

Tale tutela si applica:

  • in caso licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del CCNL applicabile;
  • in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato.

Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno oltreché al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva. Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Il risarcimento non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.

 

3. Tutela meramente obbligatoria

Tale tutela si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro.

In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore i lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti;

 

4. Tutela obbligatoria “ridotta”

Tale tutela si applica alle ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per il giustificato motivo oggettivo.

In tali casi il giudice, dichiarando l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità variabile tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi da parte del giudice in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.

Da quanto detto, si ricava che il giudice deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nei, soli, seguenti casi:

  • licenziamento discriminatorio;
  • licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio;
  • licenziamento comminato in violazione delle tutele previste in materia di maternità e paternità;
  • licenziamento inefficace in quanto orale;
  • altri casi di licenziamento nullo previsti dalla legge o determinato da motivo illecito determinante;
  • licenziamento comminato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa annullabile in quanto il fatto addebitato non sussiste o quando esso rientra fra le sanzioni punibili con una sanzione conservativa;
  • licenziamento economico annullabile quando il fatto addotto è manifestamente infondato.

Per gli altri casi di licenziamento, la stessa norma prevede altre forme di tutela che vengono graduate a seconda della gravità del vizio che inficia la legittimità del licenziamento.

In ogni caso, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è applicabile solo ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti nell’unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato oppure nell’ambito dello stesso comune; e in ogni caso ai datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di sessanta lavoratori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo delle unità produttive.

La reintegrazione deve avvenire riammettendo il dipendente nel medesimo posto che occupava prima del licenziamento, salva la possibilità di procedere al trasferimento in un secondo momento se ricorrono apprezzabili esigenze tecnico-organizzative o in caso di soppressione dell’unità produttiva cui era addetto il lavoratore licenziato (Cass. 3 maggio 2004 n. 8364).

Non è possibile allegare l’avvenuta sostituzione dello stesso come esigenza organizzativa per trasferire in altra sede il dipendente reintegrato.

Se il ripristino di tutte le condizioni preesistenti al licenziamento è impossibile per cause non imputabili al datore di lavoro, possono essere adottate quelle modifiche (ad esempio un distacco) che assicurino comunque il ripristino del rapporto illegittimamente risolto.

Per l’esecuzione della reintegrazione non vi sono obblighi a carico del lavoratore, pertanto egli non deve compiere alcun atto formale, né deve dichiarare la propria disponibilità alla ripresa del lavoro.

 

Questione 3

In quali ipotesi prevede la reintegrazione e a chi si applica il regime di tutela introdotto dal d.lgs. 23/2015, attuativo del c.d. Jobs Act?

Il decreto legislativo n. 23/2015, sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, attuativo del c.d. Jobs Act (legge n. 183 del 2014), ha introdotto un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo, che riguarda tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).

Il decreto prevede peraltro che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all'entrata in vigore di detto decreto, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento ingiusto.

Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.

La nuova disciplina contempla la reintegrazione nei seguenti casi:

  • licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della legge n. 300 del 1970;
  • licenziamento nullo per espressa previsione di legge;
  • licenziamento inefficace perché intimato in forma orale;
  • licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore;
  • licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.

Nelle prime quattro ipotesi (licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore), il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore, anche al pagamento di un’indennità a favore di quest’ultimo e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

L’indennità è commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrisponde al periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso, l’indennità non può essere inferiore a cinque mensilità.

Fermo restando il diritto a percepire la suddetta indennità, al lavoratore è attribuita la facoltà di sostituire la reintegrazione nel posto di lavoro con un ulteriore indennizzo economico, pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, purché effettui la relativa richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. L’indennità sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione previdenziale.

Anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, e il dipendente ha il diritto di percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. A tale indennità, tuttavia, andrà dedotto non solo l’aliunde perceptum, ma anche le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). Inoltre, l’indennità non potrà essere superiore a dodici mensilità (mentre non è prevista un’entità minima, come invece stabilito per le altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace). 

Va infine segnalato che la nuova disciplina prevede che la reintegrazione possa essere disposta anche nel caso di licenziamento di dipendente assunto presso datori di lavoro che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18, ma solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.

In tutte le altre ipotesi di licenziamento illegittimo per mancanza di valida giustificazione, il lavoratore ha diritto esclusivamente a un’indennità, variabile (e crescente) in funzione della sua anzianità di servizio. Più precisamente, per ogni anno di servizio il lavoratore ha diritto a un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR; in ogni caso, l’indennità non può essere inferiore a 6 e superiore a 36 mensilità (nel caso di licenziamento illegittimo per vizi formali e procedurali, il minimo è ridotto a 2 mensilità, mentre il massimo è ridotto a 12).

Tuttavia, con la recente e nota sentenza n. 194/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 co. 1 nella parte in cui determina rigidamente l’indennità dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato. La Corte Costituzionale ha infatti affermato che tale modalità di calcolo, legata unicamente all’anzianità aziendale, è illegittima in quanto “prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente” e, pertanto, non può ritenersi rispettosa degli artt. 4 co. 1 e 35 co. 1 Cost.. Conseguentemente, la stessa Corte ha precisato che, al fine di quantificare l’indennità dovuta nel caso contrato, il giudice deve far riferimento ai criteri ex art. 8 L. 604/66 e art. 18 c. 5 S.L. (non solo l’anzianità di servizio, ma anche il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti).

La pronuncia della Corte Costituzionale ha certamente rilievo anche con riferimento alle imprese che occupano meno di 15 dipendenti, alle quali l’art. 3 co. 1 è applicabile in forza del richiamo diretto operato dall’articolo 9. Infatti, la norma da ultimo richiamata non dispone una disciplina autonoma della sanzione applicabile ai licenziamenti illegittimamente intimati dai datori di lavoro che non raggiungo le soglie occupazionali ex art. 18 S.L.., ma compie un mero richiamo dell’art. 3 c. 1, prevedendo che l’importo ivi previsto viene dimezzato e non possa superare il limite di 6 mensilità.

 

 

Questione 4

Cosa può fare un lavoratore qualora, disposta la reintegrazione da parte del giudice a seguito dell'accertamento della illegittimità del licenziamento inflittogli, non intenda tornare al lavoro?

Come già avvenuto con la riforma introdotta dalla legge n. 108 del 1990, anche le riforme del 2012 e del 2015 hanno considerato l'ipotesi che il lavoratore, reintegrato a seguito di un illegittimo licenziamento, preferisca rinunciare al posto di lavoro.

L'ipotesi è disciplinata dall'art. 18 c. 4 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla L. 92/2012, e dal terzo comma dell’art. 2 del d.lgs. 23/2015. Entrambe le norme prevedono, in particolare, che il lavoratore, a seguito dell'ordine di reintegrazione formulato dal giudice, possa optare per la risoluzione del rapporto in cambio di una indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. In altre parole, il lavoratore ha la facoltà di domandare al datore di lavoro, al posto della reintegrazione, la somma ora indicata, che andrà ad aggiungersi a quella già liquidata dal giudice a titolo di risarcimento del danno.

Tuttavia, il lavoratore deve esercitare tale facoltà nel termine tassativo di trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. In ogni caso, fino a quando l'opzione non sia stata esercitata, il lavoratore ha diritto alla retribuzione dovuta a far tempo dalla sentenza di reintegrazione. La Corte di cassazione ha precisato che la retribuzione è dovuta anche nel caso in cui il lavoratore non ottemperi all'invito, rivoltogli dal datore di lavoro, di riprendere servizio (sentenza n. 6494 del 7/6/91); a tale riguardo, si tenga però presente che, se entro trenta giorni dall'invito il servizio non viene ripreso, il rapporto è automaticamente risolto senza diritto ad alcuna indennità.

Inoltre, la Corte Costituzionale (sentenza n.291/96) ha affermato che la facoltà insindacabile di monetizzare il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, attribuita al lavoratore dal 5° comma dell'art. 18 S.L., non può essere vanificata dalla revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, nel corso del giudizio avanti l'Autorità Giudiziaria; tale revoca infatti non può giungere ad effetto se non vi è accettazione del dipendente.

 

Questione 5

Qual è il regime dei contributi relativi al periodo che intercorre dal licenziamento alla reintegrazione?

L'art. 18 S.L., così come riformato dalla legge Fornero – applicabile ai lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 –, a proposito della questione contributiva in caso di reintegrazione, distingue due diverse ipotesi:

  • nel caso di licenziamento illegittimo al quale sia applicabile la tutela reintegratoria piena (licenziamento discriminatorio e licenziamento orale), il datore di lavoro, oltre a dover reintegrare il lavoratore, è tenuto altresì a versare i contributi previdenziali e assistenziali per il periodo intercorrente dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione;
  • nel caso di licenziamento illegittimo rientrante nel regime della tutela reintegratoria attenuata, invece, è previsto che il datore di lavoro versi un importo pari alla differenza fra i contributi che il lavoratore avrebbe maturato nel corso del rapporto illegittimamente interrotto e quelli che gli sono stati accreditati in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. La legge precisa anche che, in quest’ultimo caso, se i contributi derivanti da altra attività lavorativa dovessero afferire ad un’altra gestione previdenziale, essi dovranno ugualmente essere imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta in precedenza dal lavoratore licenziato e che i costi di tale imputazione sono a carico del datore di lavoro.

La nuova disciplina introdotta dal d.lgs. 23/2015, che interessa tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti, si limita invece a stabilire che il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore e al risarcimento del danno, anche al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, senza che sia prevista alcuna riduzione per l’eventualità in cui al lavoratore siano state accreditate altre contribuzioni in ragione dello svolgimento di altra attività lavorativa.  

La legge non disciplina la questione contributiva in ordine alla indennità, commisurata a 15 mensilità, che il lavoratore può rivendicare al posto della reintegrazione. Resta così controverso se, in questo caso, il datore di lavoro sia anche obbligato al versamento dei contributi. A tale riguardo, bisogna però segnalare che l'Inps ha emanato una circolare secondo la quale i contributi non sono dovuti, dal momento che la somma non viene corrisposta a titolo di retribuzione, avendo natura risarcitoria.

Discorso analogo viene fatto per il caso in cui, nelle aziende di minori dimensioni, alle quali non sia applicabile l'art. 18 S.L., il datore di lavoro, invece di riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, preferisca corrispondergli l'indennità stabilita dalla legge (da 2,5 a 6 mensilità). Si è infatti sostenuto che, stante la natura risarcitoria della somma dovuta, il datore di lavoro non è tenuto al versamento contributivo.

 

Questione 6

A seguito della reintegrazione, il lavoratore illegittimamente messo in mobilità deve restituire il TFR percepito al momento del licenziamento? E l'Inps potrebbe pretendere la restituzione della indennità di mobilità corrisposta?

Sicuramente, il lavoratore licenziato, reintegrato nel posto di lavoro a seguito di una sentenza di accertamento della illegittimità del licenziamento, deve restituire il TFR eventualmente percepito. Tuttavia, questa regola generale incontra precise limitazioni. In primo luogo, bisogna distinguere se il provvedimento giudiziario di reintegrazione sia una sentenza, ovvero un provvedimento cautelare d'urgenza (si tratta del provvedimento che conclude la fase, appunto, d'urgenza che di regola, in caso di licenziamento, precede il vero e proprio giudizio di primo grado a cognizione piena). Infatti, una sentenza ha stabilito che, in quest'ultimo caso, il lavoratore può rivendicare il pagamento del TFR non corrisposto, in quanto solo la sentenza, e non il provvedimento d'urgenza, ricostituisce il rapporto di lavoro (così Pret. Frosinone 4/2/94, est. Cianfrocca, nella causa Air Capitol Srl contro Battista).

Inoltre, secondo la Corte di cassazione, il datore di lavoro non può, unilateralmente e senza il consenso del lavoratore, recuperare somme che pretende essere dovute mediante trattenute sulla retribuzione. Al contrario, se il lavoratore contesta l'esistenza del credito, il datore di lavoro deve promuovere un giudizio che ne accerti l'esistenza. Infatti, consentire la unilaterale trattenuta sulla retribuzione equivarrebbe a riconoscere al datore di lavoro un potere di autotutela estraneo all'ordinamento giuridico (così Cass. 7/9/93 n. 9388, pres. Mollica, est. Buccarelli, nella causa Cosentino e altri contro A.C.T.P.N.).

In ogni caso, l'art. 545 cpc dispone che le retribuzioni e le "altre indennità relative al rapporto di lavoro" non possono essere pignorate in misura superiore ad un quinto. Pertanto, anche se, contro la giurisprudenza sopra citata, si ammettesse la possibilità di una sorta di compensazione automatica tra i crediti, il datore di lavoro non potrebbe trattenere più di un quinto della retribuzione.

Quanto alla indennità di mobilità, anch'essa deve essere restituita, peraltro sempre secondo la regola imposta dall'art. 545 sopra citato. In ogni caso, va detto che la restituzione dell'indennità in questione non costituisce un danno per il lavoratore, poiché la sentenza che accerti la illegittimità del licenziamento condanna il datore di lavoro a corrispondere la retribuzione piena per un periodo almeno pari a quello in cui è perdurata la messa in mobilità.