Contratti collettivi

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Questione 1

E’ possibile che un contratto collettivo sopravvenuto introduca, con efficacia vincolante per tutti, una disciplina peggiorativa del rapporto di lavoro?

La giurisprudenza ammette che un nuovo contratto collettivo di lavoro introduca modifiche peggiorative al rapporto di lavoro. Gli unici limiti a questa possibilità sono il principio della intangibilità della retribuzione e la salvaguardia dei diritti quesiti. In altre parole, mediante un contratto collettivo non sarebbe ammissibile prevedere una decurtazione retributiva oppure la cancellazione di un diritto che sia già maturato ed entrato nel patrimonio del lavoratore. In particolare, per disporre di un diritto quesito, sarebbe necessario un apposito ed esplicito mandato da parte del lavoratore.

Tuttavia, i contratti collettivi di lavoro sono ordinari contratti di diritto comune. Questo vuol dire che i contratti in questione possono vincolare solamente i lavoratori iscritti al sindacato stipulante. I lavoratori non iscritti a quel sindacato possono peraltro aderire all’accordo, cosa che può avvenire anche tacitamente. In altre parole, il lavoratore non iscritto al sindacato stipulante, che intenda rifiutare (come è suo diritto) gli effetti di un accordo, ha l’onere di manifestare tempestivamente il proprio dissenso; qualora la contrarietà all’accordo non fosse dichiarata, si dovrebbe ritenere che il lavoratore abbia tacitamente prestato il proprio consenso all’accordo stesso.

La regola sopra indicata non trova applicazione nel caso dei c.d. contratti gestionali. Si tratta di accordi che il datore di lavoro stipula, eventualmente, con le organizzazioni sindacali in caso di Cassa integrazione guadagni, o licenziamenti collettivi, o trasferimenti d’azienda. In casi come questi, la legge prevede una articolata procedura di informazione e consultazione del sindacato, all’esito della quale è possibile la stipulazione di un accordo per la disciplina e la gestione del provvedimento deciso dal datore di lavoro. Ora, poiché il datore di lavoro potrebbe comunque portare a compimento, per esempio, il licenziamento collettivo, è stato ritenuto che l’accordo eventualmente raggiunto non può comportare per i lavoratori situazioni deteriori a quelle che sarebbero risultate se il provvedimento fosse stato attuato unilateralmente. Conseguentemente, gli accordi di questo tipo sono applicabili a tutti i lavoratori, a prescindere dal fatto che gli stessi siano iscritti oppure no al sindacato stipulante.

Questione 2

Come si determina il contratto collettivo di lavoro applicabile, nel caso in cui il datore di lavoro non sia iscritto a nessuna associazione imprenditoriale?

Da qualche tempo sembra essere più diffuso il fenomeno del datore di lavoro non iscritto ad alcuna associazione imprenditoriale. Questa scelta è spesso dettata da motivi pratici più che ideologici, poiché la non iscrizione comporta la inapplicabilità dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che sono ordinari contratti di diritto privato e, come tali, si applicano solamente alle parti stipulanti e ai soggetti da esse rappresentati.

Nel caso in cui il datore di lavoro, pur non essendo iscritto ad alcuna associazione imprenditoriale, abbia di fatto applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro, i lavoratori avranno diritto alla applicazione di tale contratto. Tuttavia, al di fuori di questo caso, se il datore di lavoro non è iscritto alle associazioni imprenditoriali, il rapporto di lavoro è disciplinato esclusivamente dalla legge, e i lavoratori non potranno invocare alcuna normativa contrattuale.

In realtà, il quadro è meno fosco di quanto possa sembrare perché il datore di lavoro è sempre tenuto a garantire ai propri dipendenti una retribuzione sufficiente e proporzionata alla qualità e quantità del lavoro, secondo quanto disposto dall'art. 36 Cost.. La giurisprudenza interpreta questo precetto costituzionale nel senso che la retribuzione deve essere considerata sufficiente e proporzionata se sia pari a quella indicata nei contratti collettivi di lavoro che, dunque, almeno sotto il profilo retributivo, devono essere sempre applicati dal datore di lavoro.

Con la sentenza n. 3218 del 26/3/98, la Corte di cassazione ha chiarito che, in un caso come quello di cui si parla, il datore di lavoro non può liberamente scegliere il contratto collettivo che più lo aggrada. In quel caso, il datore di lavoro, non iscritto ad associazioni imprenditoriali, invece di applicare le retribuzioni previste dal contratto nazionale, aveva fatto riferimento alle inferiori tabelle retributive del contratto provinciale, asserendo che queste erano più rispondenti alle condizioni di vita locali e, dunque, rispettose del principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione exart. 36 Cost.. Questa argomentazione è stata respinta dalla Corte di cassazione: infatti, è stato ritenuto che la inferiore retribuzione prevista da un contratto provinciale non è di per sé rispettosa del precetto costituzionale in considerazione delle condizioni del mercato locale. Tuttavia, con un’argomentazione non altrettanto condivisibile, è stato anche ritenuto che, in astratto, la contrattazione locale potrebbe prevedere una retribuzione inferiore a quella indicata dalla contrattazione nazionale, senza violare il precetto di proporzionalità e sufficienza della retribuzione: spetta di volta in volta al giudice accertare se l’inferiore retribuzione prevista a livello locale sia o non sia conforme al precetto costituzionale.